Attualità

Veleni in mezzo Veneto come a Napoli, è allarme salute per 800 mila persone

di Ivano Tolettini -


Un calvario ambientale. Una fetta di Veneto convive con un disastro che rinnova lo scempio della “Terra dei fuochi”. Ma la causa non è la criminalità camorristica. È un’attività industriale che da paradigma del benessere del Nordest – la famigerata Miteni di Trissino, nella vicentina Valle dell’Agno -, si è trasformata nel monito per l’uomo quando la natura è maltrattata. Più di 350 mila abitanti, ma quelli potenzialmente coinvolti sono 800 mila, distribuiti in 180 chilometri quadrati tra le province di Verona, Vicenza e Padova, dal 2013 sanno di avere come ingombrante compagno di viaggio nel sangue l’inquinamento da Pfas.
È l’acronimo delle sostanze perfluoroalchiliche che dagli anni Cinquanta sono usate per produrre impermeabilizzanti per tessuti, tappeti e pelli, oltre a schiume antincendio, vernici, rivestimenti dei contenitori per il cibo e detersivi. Tutti viviamo a contatto con i Pfas, che per trasformarli in una bomba ecologica c’è voluta una fabbrica che dagli anni Sessanta ha travasato nella falda questo veleno. Per decenni nelle viscere della terra gli inquinanti, trasformati in plume, si sono mescolati all’acqua venendo bevuti o assunti con il cibo. Tanto più che una parte della popolazione attingeva l’acqua da pozzi artesiani.
Certo, le sensibilità ambientali e le normative all’epoca erano inesistenti. Il quadro è radicalmente mutato dopo che nel 2011 il ministero dell’Ambiente commissionò al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) uno studio che il 25 marzo 2013 fu pubblicato e che fece scoppiare pubblicamente il caso. Perché metteva in luce “un possibile rischio sanitario per le popolazioni che bevono queste acque, prelevate dalla falda”. Come hanno confermato le indagini sanitarie sulla popolazione, coordinate dalla Regione Veneto, e che hanno cambiato la traiettoria esistenziale soprattutto dei più giovani. Perché l’assunzione dei Pfas rappresenta una pesante ipoteca per i maschi poiché «l’attività del loro testosterone è ridotta del 50%». Come spiega Carlo Foresta, luminare padovano dell’endocrinologia. Pochi giorni fa in un incontro pubblico ha confermato che “da uno studio su un centinaio di ventenni che vivono nella zona rossa contaminata da Pfas, il 32% ha una osteoporosi o una osteopenia”. E la loro fertilità è menomata.
Quella veneta, secondo molti osservatori, è una delle zona censite più inquinate al mondo da questo piccolo agente chimico che interferisce sulla fertilità maschile. Ma non solo, osserva ancora il prof. Foresta, “perché nelle maggiori zone del mondo inquinate da Pfas si sono registrati maggiori casi di autismo e Alzheimer”.
Un’interferenza drammatica nella vita dei cittadini che, non appena è deflagrata nella coscienza popolare, si sono ribellati e hanno costretto le autorità regionali e provinciali a uscire da quel torpore che inizialmente le pervadeva. Merito anche del movimento delle Mamme No Pfas – oltre che delle amministrazioni comunali che vennero incalzate dai cittadini smarriti e arrabbiati -, che nel 2017 organizzarono una delle prime grandi manifestazione pubbliche cui parteciparono 10 mila persone e 50 sindaci. “Nel 2017 quando l’Ulss dispose un monitoraggio dei cittadini – spiega Michela Piccoli di Lonigo, una delle referenti delle Mamme No Pfas con la veronese Michela Zamboni di Legnago -, i valori rilevati ci segnarono profondamente perché di fronte ad un valore massimo tollerato di 8 nanogrammi per millilitro (ng/ml), i risultati andavano da 90 a 300, perfino 1000 ng/ml”. Per capire il potere inquinante dei Pfas, un semplice cucchiaino avvelena una piscina olimpionica.
Nel frattempo, la magistratura aveva incaricato i carabinieri del Noe e l’Arpav di cercare le eventuali responsabilità. Grazie alle loro indagini nel 2021, in Corte d’Assise a Vicenza, è iniziato il processo contro 15 imputati: perlopiù manager giapponesi del colosso Mitsubishi corporation, della controllante lussemburghese di Miteni Icig e della Miteni fallita nel 2018. Sono accusati di avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione non autorizzata dei rifiuti, inquinamento ambientale e reati fallimentari.
In aula si sono costituite oltre 300 parti civili chiedendo danni miliardari. I costi sostenuti dalla Regione sono fin qui ingentissimi. Gli acquedotti dell’Area Berica sono stati messi in sicurezza, ma i costanti screening cui è sottoposta l’intera popolazione costano molto. Il conto salatissimo lo pagherà chi inquina tuttora. Entro fine anno saranno sgomberati gli impianti, che finiranno in India, su cui è cominciata la bonifica dell’Eni, che è in ritardo e dovrebbe concludersi entro il 2023, com’è stato spiegato in un incontro pubblico a Lonigo. “L’ideale sarebbe non abbandonare l’area della bonifica senza una supervisione costante che fosse eseguita da un’azienda affidabile, meglio del territorio. Di stranieri che sono poi scappati ne abbiamo già avuti”, spiega una mamma. Intanto, il prof. Foresta annuncia che con i carboni vegetali si riduce la percentuale di Pfas nel sangue del 50%. Ma la gente ha la certezza che la battaglia contro i Pfas durerà decenni perché l’inquinamento nella novella “Terra dei Fuochi” prosegue e si allarga. “Il plume da Trissino a Lonigo ha impiegato trent’anni ad arrivare – sospira Michela Piccoli -. Per questo bisogna fare presto a bonificare”.


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