Venezia: il ritorno di Guadagnino. Il lavoro al centro della sfida sociale
Ci sono film che possono aprire un varco, non soltanto nello sguardo di chi li osserva, ma nel modo stesso in cui una comunità percepisce se stessa. After the Hunt di Luca Guadagnino appartiene a questa categoria. Presentato fuori concorso, il nuovo lavoro del regista siciliano conferma per rigore e profondità, segnando una ulteriore tappa nella sua filmografia. Guadagnino, noto per il gusto estetico raffinato e per il ricorso a un linguaggio visivo spesso elegante e sensuale, sceglie qui la strada dell’asciuttezza: niente virtuosismi, nessun compiacimento. Al centro c’è la parola, la tensione morale, il conflitto irrisolto. La vicenda è ambientata in un’università americana, uno di quei campus che incarnano ancora l’idea di comunità intellettuale – oggi messa a dura prova dal Trump pensiero – , ma anche i luoghi in cui il potere si gioca attraverso relazioni di forza, ambizioni, desideri, accuse. Julia Roberts, nella parte della docente Alma Anville, offre una interpretazione solida e matura della sua carriera: il suo volto scava, interroga, vacilla. Non è solo la questione delle accuse rivolte a un professore da parte di una studentessa, ma il nodo di una responsabilità che investe chi ascolta, chi giudica, chi deve decidere. Accanto a Roberts, Andrew Garfield interpreta l’accusato con una misura calibrata, sospesa tra fragilità e ambiguità, evitando caricature o semplificazioni.
Guadagnino non cerca la spettacolarità, ma l’intensità. La sua macchina da presa sembra quasi arretrare per lasciare spazio alla densità del dialogo, a un conflitto che non concede certezze. È cinema che mette a disagio, perché costringe a guardare la società occidentale dentro le sue contraddizioni più urgenti, quanto mai attuali visto il declino della società occidentale secondo taluni esegeti: giocate attraverso consenso, abuso, potere, silenzi complici.
LA GARA E IL LAVORO
Se After the Hunt affonda nel cuore dell’etica accademica, due film in concorso alla 82ª Mostra affrontano invece un tema parallelo: il lavoro, declinato nelle sue molteplici tensioni. Da un lato No Other Choice del coreano Park Chan-wook, dall’altro À pied d’œuvre di Valérie Donzelli.
Park Chan-wook sceglie di adattare The Ax di Donald Westlake, già portato sullo schermo da Costa-Gavras, spostando l’azione in Corea del Sud. Qui Man-soo (interpretato da Lee Byung-hun) è un uomo licenziato dopo venticinque anni di fedeltà alla stessa azienda. La sua vita si sgretola, e l’unica via che intravede è eliminare fisicamente i concorrenti per assicurarsi un nuovo posto. Il film non lascia spiragli consolatori: Park mostra la crudeltà del capitalismo contemporaneo con una precisione glaciale. Niente melodramma, nessuna richiesta di pietà. Il protagonista non è un mostro né un eroe: è un uomo ordinario spinto al limite da un sistema che riduce il lavoro a pura sopravvivenza, trasformando la ricerca di un impiego in un duello all’ultimo sangue.
La forza di No Other Choice sta nella sua radicalità visiva. Park, fedele al suo stile, costruisce inquadrature nette, taglienti, capaci di esprimere insieme bellezza e terrore. Lo spettatore non è invitato a identificarsi, ma a misurarsi con l’abisso sociale che il film spalanca. È un’opera disturbante, che rivela senza veli la ferocia di un modello competitivo che, dietro la retorica della meritocrazia, produce esclusione, violenza, perdita di identità.
Sul versante opposto, Valérie Donzelli porta a Venezia À pied d’œuvre, un film che guarda al lavoro da un’angolatura intima e poetica. Il protagonista, un giovane interpretato da Bastien Bouillon, abbandona una vita incerta per ritrovare dignità attraverso un mestiere manuale in una fabbrica di tubature. Donzelli evita la retorica e sceglie la strada del racconto sommesso, fatto di gesti quotidiani, di corpi che si muovono nello spazio industriale. Non c’è eroismo, non c’è tragedia, ma la fatica silenziosa che diventa resistenza, il gesto ripetuto che ricostruisce un senso.
Il cinema francese trova qui una delle sue linee più autentiche: raccontare la realtà senza proclami, con una lente di compassione e precisione. Il lavoro non è un luogo solo di alienazione, ma di scelte, di possibilità, di riappropriazione di sé. Dipende dal ruolo che si vuole interpretare nella società. In un certo senso, il film dialoga con la tradizione del realismo poetico francese, ma lo fa con una sensibilità contemporanea, attenta al fragile equilibrio tra dignità individuale e pressione collettiva.
LA DIMENSIONE SOCIALE
Messi a confronto, questi tre titoli delineano un trittico ideale. Guadagnino interroga l’etica e la responsabilità nel mondo accademico; Park Chan-wook scava nell’orrore della competizione selvaggia che pone tanti interrogativi sul capitalismo contemporaneo; Valérie Donzelli restituisce la forza silenziosa della dignità ritrovata nel lavoro manuale, ma anche le domande fondamentali sulla nostra dimensione sociale. Tre prospettive diverse, tre geografie culturali distanti, ma tutte convergenti su una stessa consapevolezza: il lavoro e il potere, declinati nelle loro forme più diverse, sono i nodi centrali della contemporaneità.
Venezia 82 si conferma, così, non solo come vetrina di cinema d’autore, ma come laboratorio di riflessione collettiva. In un tempo segnato da precarietà economiche, crisi etiche e tensioni sociali, il cinema sceglie di non restare a margine. After the Hunt, No Other Choice e À pied d’œuvre dimostrano che la settima arte non si limita a intrattenere, ma entra nel vivo delle contraddizioni del presente, costringendo lo spettatore a interrogarsi. E forse è proprio questo, oggi, il segno più convincente del suo ruolo insostituibile.
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