Attualità

Venezia, la discutibile scelta della giuria. La strana logica di Jarmusch oltre Gaza

di Ivano Tolettini -


La regola non scritta dei grandi festival è che il Leone d’oro non va mai al favorito della vigilia. Un po’ come in un conclave. È accaduto di nuovo alla Mostra del cinema di Venezia 82, con la giuria guidata da Alexander Payne che ha incoronato Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch, film intimo, minimale, quasi dimesso, preferendolo a due opere che avevano acceso il dibattito e infiammato la platea: The Voice of Hind Rajab della tunisina Kaouther Ben Hania, documento lancinante sulla tragedia di Gaza, e A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, il thriller geopolitico che mette a nudo la follia nucleare del nostro tempo. La decisione ha sorpreso critica e pubblico, perché il vento del festival spirava in direzione opposta. Nei corridoi del Lido si dava quasi per certo il trionfo di Hind, la bambina palestinese uccisa a Gaza e trasformata da Ben Hania in simbolo universale dell’innocenza calpestata. Venti minuti di applausi avevano suggellato la proiezione, e Toni Servillo, premiato con la Coppa Volpi per La grazia di Paolo Sorrentino, aveva pubblicamente espresso ammirazione “per chi si è messo in gioco per la Palestina con coraggio”. Era sembrata la cornice perfetta per un Leone che facesse storia, come accadde nel 2012 con Pietà di Kim Ki-duk.
Anche Bigelow sembrava in pole position. Con A House of Dynamite aveva portato a Venezia il suo cinema fisico, teso, fondato sulla tensione politica globale. Rebecca Ferguson al centro del bunker della “Situation room” a sorvegliare l’arsenale atomico e la sicurezza americana: un racconto potente, di straordinaria attualità, che ha mostrato il festival come specchio delle paure del presente. “Viviamo all’ombra costante dell’annientamento”, ha dichiarato la regista, raccogliendo applausi convinti. Invece, la giuria ha scelto altro. Payne e i suoi compagni di viaggio hanno preferito l’understatement di Jarmusch: quattro fratelli adulti che si ritrovano accanto al capezzale del padre morente, in un Mid West rarefatto, con dialoghi minimi e lunghi silenzi. Cinema apparentemente minore, che ha diviso (Paolo Mereghetti lo ha definito “un minimalismo che non convince”), ma che ha probabilmente offerto alla giuria l’alibi di una neutralità: un film senza frontiere, senza bandiere, privo di quelle lacerazioni che avrebbero potuto incendiare lo scenario politico. Una scelta forse detta da logiche di mercato. Non si tratta solo di estetica. Il paradigma che ha prevalso è stato quello della prudenza. Premiare The Voice of Hind Rajab avrebbe significato assumere una posizione politica netta nel pieno di una guerra che lacera la coscienza internazionale. Dare il Leone a Bigelow avrebbe posto Venezia al centro di un dibattito sull’equilibrio nucleare e sulla politica estera americana. Jarmusch, invece, garantiva il prestigio dell’autore consolidato, un nome che fa curriculum a qualunque palmarès, senza rischi di accuse di militanza.
L’Italia, intanto, ha trovato il suo premio con la Coppa Volpi a Servillo per La grazia
. Un riconoscimento sacrosanto per un attore che ha dato volto e voce a un Presidente della Repubblica diviso tra fede, legge e umanità. Ma resta l’amaro: l’opera di Sorrentino, applauditissima e di alto livello, aveva le carte in regola per il Leone d’oro. “Il festival non vive in una bolla”, ha ricordato il direttore Alberto Barbera nei giorni scorsi. Eppure, nel verdetto finale, la bolla è riapparsa. Resta un dato: nonostante le polemiche, Venezia rimane la numero uno. La scelta della giuria non scalfisce l’impianto di una Mostra che ha offerto titoli, idee, conflitti, linguaggi. Ha portato il mondo dentro le sale del Lido, confermando quella vocazione che Barbera ha saputo rilanciare in oltre un decennio di direzione. Cannes resta più glamour, Berlino più militante: ma solo Venezia, ancora una volta, riesce a mettere insieme il cinema e la vita, lo spettacolo e la coscienza.
Alla fine, la domanda è la stessa che ci poniamo ogni anno: il miglior film ha davvero vinto? Forse no. Ma è anche per questo che torniamo, ogni settembre, al Lido: perché la partita rimane aperta, e il cinema, almeno qui, continua a far discutere.


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