Vincenzo Fullone: l’angelo di Gaza nel grido silenzioso del Medio Oriente
Vincenzo Fullone, 53 anni il 13 agosto prossimo ha avuto (ed ha anche ora), una vita decisamente turbolenta, quando abbiamo iniziato l’intervista sapevamo già qualcosa, ma non ci aspettavamo tutto quello che abbiamo appreso. L’istruzione e l’infanzia di Vincenzo è avvenuta in ambienti del Vaticano e gli studi alle Università Angelicum e all’Urbaniana, hanno dato spazio alla creatività e all’istruzione ecclesiastica meno severa, rispetto ad altre università ecclesiastiche presenti. Per Fullone, il mondo era racchiuso in due parole; studiare e pregare. Nel 2000, però, la necessità di avvicinarsi al mondo esterno, porta Vincenzo a confrontarsi con il suo vero essere, con la voglia di avvicinarsi all’amore e a tutte le manifestazioni che da esso possono provenire; egli segue il Vangelo e non cosa impongono i cattolici odierni. Inizia a trovare stretta quella Chiesa che parla di amore verso il prossimo e chiude le porte ai divorziati, all’omosessualità. Sempre nello stesso anno, Vincenzo è diviso nell’organizzazione tra il Giubileo (il Papa di allora era Giovanni Paolo II) e il Gay Pride e l’impegno nell’ambito Lgbti (fino al 2005). L’amore anche tra persone dello stesso sesso, non deve far temere la perdita della verità e la verità stessa, non può essere messa in pericolo da tali sentimenti, ma la Chiesa su questo è ferrea (chiusa); l’amore esiste solo tra uomini e donne, non tra esseri dello stesso sesso. L’etica sociale, che non mette in dubbio i dogmi della fede, si evolve con le necessità e i cambiamenti degli esseri viventi il cui bene comune restano i sentimenti puri. Vincenzo, per le sue idee, per il suo darsi da fare non condiviso dalla Chiesa, viene scomunicato e per la prima volta nella sua vita, ha la possibilità di decidere per sé, di capire cosa realmente vuole, fuori dalle convenzioni, da ciò che era imposto, ma che nel suo essere fosse giusto. Entra in contatto con i maggiori esponenti delle comunità LGBTQIA+ e gli ambienti omosessuali della Capitale, che si stavano sviluppando in questo periodo, aiutando all’organizzazione del Gay Village a Testaccio -svolto per la prima volta a Roma-; è un successo ed una rivincita morale e personale, oltre che a quello del riscontro con il pubblico. Poi una vocazione; seguire la popolazione palestinese per far conoscere al mondo occidentale, le dinamiche di non vita, di un popolo che non si è mai arreso ad ottenere la libertà. Abbiamo intervistato Vincenzo Fullone che, fino a qualche tempo fa, viveva in Palestina.
Perché hai sentito la necessità di abbracciare la causa del popolo palestinese?
“Io sono una persona camaleontica, mi adatto molto alle situazioni, io sono nato in Calabria dove la ‘ndrangheta faceva paura, dove le regole da seguire hanno fatto parte della mia vita anche nell’ambito della chiesa, dove avevo raggiunto a livello professionale, un ottimo riscontro, grazie anche ai miei studi in teologia e alla vocazione che mi contraddistingueva. Dopo la scomunica emessa dal Vescovo diocesano, dopo una sezione del Tribunale ecclesiastico, per conto della Santa Sede, ho frequentato i centri sociali, dove ho incontrato molti filopalestinesi ed ho avuto modo di rapportarmi con molte persone, ma tutto ciò che è unilaterale, a me non piace, io adoro la bellezza, la potenza delle parole, il buono che c’è nelle persone e le infinite possibilità che l’essere umano ha per rapportarsi con la natura e con il proprio io. Ho sentito forte il richiamo della Palestina quando mi sono reso conto di quanto io mi sentissi trasportato verso l’inferno che si è sempre vissuto in quei luoghi. Soprattutto nella città di Gaza, sono stato subito accolto benissimo, con tanta umanità da sembrare che io, avessi sempre vissuto lì. I palestinesi, non hanno nulla se non la religione e la famiglia, sono rinchiusi in un perenne campo di sterminio, in un incubo che dura da troppo tempo e per troppo è stato tenuto nascosto. Nel 2006 ho avuto modo di conoscere il mio grande amico Sami (un fotografo giordano), insieme abbiamo vissuto l’assedio della Palestina, ricorderò sempre, quando su un ponte del paese in cui sono nato, in Calabria, a Crosia, scrissi ‘GAZA IS CROSIA’ da Gaza, la risposta arrivò presto tramite una foto con scritto: ‘ GAZA IS CROSIA’, un collegamento forte, un sentimento importante di conoscenza ed intelligenza, oltre che di grande amore. Dopo 7 anni, era il 2013, io e Yaser, Roshdi e Sami, entrammo nuovamente a Gaza, per fotografare la verità, affinchè tutti ne fossero a conoscenza, fu lì che venne creata Jasmin House, la prima rete di comunicazione che aveva come scopo la corretta e reale comunicazione interna Palestinese, per sostenere anche l’agenzia di Yaser -Ain Media-, dopo questo evento, siamo diventati tutti bersagli di chi la verità, non voleva farla uscire e tra il 2016 e il 2023, tutti i miei amici, vengono uccisi, silenziati, ma da me, mai dimenticati. Da allora, tra brevi ritorni in Italia e la vita in Palestina”.
Cosa manca a Gaza?
“Forse, facciamo prima a dire che cosa hanno. Nei tempi passati, sono riuscito a far arrivare anche dei microscopi e abbiamo avuto la possibilità di creare delle medicine: non avevano nulla se non la morfina e con quella, curavano ogni cosa. Chi nasce e cresce in questi luoghi, pensa che quella vissuta sia normalità e l’unica fede assoluta è quella per la religione, che gli permette di sopravvivere. Solo nei luoghi della Palestina io mi sono sentito di essere Vincenzo, una persona libera di essere ciò che sono. Ad oggi, chi è rimasto nella Striscia non ha più nulla, io stesso mi sono ritrovato a fare da scudo umano quando le donne cercavano di andare a recuperare qualcosa da mangiare; i cecchini hanno puntato non sai quante volte contro di me, ormai mi conoscevano. Io sono sempre andato in giro affermando di essere disarmato, come lo sono effettivamente i palestinesi.
Bisogna cercare di capire che, come tutti i popoli, anche quello palestinese ha il diritto di vivere, di esistere e di continuare ad essere nei suoi territori. I bambini devono crescere e non morire per mano dei cecchini, delle bombe, per la fame, per le operazioni che dovrebbero fare e non possono, perché ormai, a Gaza c’è solo polvere e sangue”.
Quali sono i momenti vissuti in Palestina, che ti porti nel cuore?
“Nel bene e nel male, ogni cosa accaduta fa parte di me, della mia storia, del bagaglio che per quanto pesante, mi spinge ad andare avanti, sempre. Arrivati nella periferia di Gaza e precisamente a Shijaia abbiamo incontrato tanti bambini che negli occhi avevano la speranza, la curiosità. Sono stato visto anche, come un traditore e un informatore, fortunatamente, le denunce non sono mai state portate avanti. Tutti sapevano chi fossi e quanto volessi il bene del popolo palestinese”.
Nonostante tu adesso sia tornato in Italia, in Calabria, riesci ancora a documentare quanto accade in Medio Oriente, giusto?
“A Gaza, la situazione cambiava e peggiorava di secondo in secondo e gli amici di lì, non volevano più che io rimanessi, il popolo della Palestina ha bisogno che le notizie di devastazione, arrivino a noi, hanno bisogno di un collegamento dal di fuori. Conto di ritornare in Palestina presto. In tutti questi anni di orrori ne ho visti, ma quello che sta accadendo ora, non riuscirò mai a cancellarlo. Quando ero ancora a Gaza, si vociferava che qualcosa stesse per accadere, sai i palestinesi hanno molte similitudini con i calabresi, parlano poco, ma l’aria che cambia si percepisce; sapevo che stava per accadere un cambiamento, ma non mi aspettavo questo. Ora, sono un uomo senza dimora, a cui manca la sua patria e la pace; soffro, piango e vorrei che tutto il mondo percepisse queste emozioni, perché davanti allo sterminio del popolo palestinese, nessuno dovrebbe girarsi dall’altra parte”.
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