Charotte: trionfo del tronfio
Abbiamo capito che Shonda Rhimes ha cavalcato il concetto nuovo di inclusività quando era nuovo e ora lo voglia saturare. Per dirla alla Jep Gambardella: non si accontenta di essere la regina di un genere, vuole avere il potere di farlo fallire. E se va avanti così ci riesce.
Mi spiego: in Bridgerton l’idea che ha anticipato la sostituzione etnica in ogni dove ha dato, passatemi il termine, “colore” ad una serie che di per sé stava ritta con una trama appena appena caruccia, col solito amorazzo incompreso condito da tanti bei figlioli, natiche esposte più che zinne e broccati a dare storicità alle vicende, poteva avere il suo perché e incuriosire l’occhio. Con lo spin off dedicato alla regina Charlotte, pure lei è piombata nelle sabbie mobili dell’esercizio di stile, che dopo un po’ è puro pavoneggiarsi in qualcosa che nel frattempoè già diventato vecchio. E questa serie, affondata nei più ovvi e scontati cliché da libro rosa, riesce a far perdere qualsiasi verve a quel personaggio ricco di ironia, fascino e ben dosata acidità che nella prima serie incuriosiva e, sì, faceva venir voglia di approfondirne la genesi.
Il cinismo di fondo resta giusto nelle prime note: quella che noi chiamiamo inclusività per darci un tono in certi salotti di sinistra, dove di nero ci sono solo gli stipendi di certi inclusi nelle stanze di servizio, qui viene intesa come esperimento.
Nel giro delle tre puntate vediamo due storie nella storia. Si inizia a fatichissima con una giovanissima Carlotta che viene catapultata in una corte con un destino scritto e deve non solo imparare tutto, ma anche dare un perché a tante cose di cui un perché non se lo spiega. Capisce abbastanza in fretta che il suo stare lì per chi ce l’ha chiamata è un modo per interrompere i guai di chi da generazione si incrocia solo con i propri simili che oltre a esser simili sono ormai talmente parenti da generare frutti talmente tarati da mettere in seria discussione la sorte del regno. Una seconda parte in cui tutto è chiaro, lei è sola perché il marito è in preda alla ormai arcinota follia, e il suo personaggio diventa sempre più caricaturale: le parrucche sempre più grandi, le coulotte sempre più ricamate, gli abiti sempre più sfarzosi e le domande al valletto cresciuto praticamente con lei, unico contatto diretto col mondo debitamente filtrato, sempre più assurde.
Nota di continuità con la serie che ha dato il via, la lingua biforcuta, la curiosità da portinaia, la voglia di stare in mezzo alla scena ma di sapere cosa succede dientro le quinte, che è il merito caratteriale di tutta la serie. Il resto è un vizioso, ripetitivo, forzatissimo tentativo di farci metabolizzare che va tutto bene così. Come se qualcuno si fosse mai posto il problema.
Finite le mie personali considerazioni, un cenno alla trama. Mezzo secolo in anticipo rispetto alle vicende della prima stagione di Bridgerton, la principessa Carlotta poco più che adolescente, è in viaggio verso la corte di re Giorgio. Compressa nel look da lacci e corsetti, non ha piena consapevolezza di esser parte di un «esperimento» macchinato a corte per mente della suocera Augusta: nozze miste (impensabili all’epoca) che facciano da collante alla società che già include esempi di colore e asiatici che tanto tanto inclusi, però, non sono, perché si guarda loro con un certo sospetto. I due promessi sposi si incontrano all’aperto, “per caso” mentre stanno scappando dal loro matrimonio. Diversi,i motivi delle reciproche fughe. Uno tra tanti e non da poco, non avere idea di che aspetto abbia l’altro.
Carlotta scopre dopo poco che i contatti con il coniuge non sono così stretti. Lei ha il palazzo della Regina, lui quello del Re.
Nessuno si prodiga in spiegazioni, e lei resta sola con Brimsley valletto sempre a 5 passi dietro da lei,inizia il suo calvario di riti e regole. Fino a quando, dandosela a gambe per un cane che dovrebbe tranquillizzarla, raggiunge il re, tutto preso a osservare le stelle. Le cose poi si sistemano in modo naturale, col tempo i due arrivano a consumare i pasti insieme, anche se non si parla di consumare le nozze. Lì sarà cruciale il ruolo della mitologica Lady Danbury che le spiegherà tutto, con tanto di libretto degli schizzi, su come tecnicamente un uomo e una donna vanno a letto insieme.
Il tutto ha il difetto di fabbricazione, già visto nelle serie precedenti, di essere sempre all’acqua di rose. Nessuno pretende il grande manuale della verità storica, che tanto è persa chissà dove, ma fare economia di sentimenti e toccarla sempre così piano a me, personalmente, ha annoiato.
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