Cultura & Spettacolo

VISTO DA – Il capitolo successivo? La noia

di Nicola Santini -


Come in una cassettiera a settimino che si pensa sia infinita, si svuota un cassetto se ne riempie un altro. Svuotato quello già zoppicamente ma allegramente grottesco del sesso, si è fatto spazio a quello della noia. Una noia che spinge a dire che si vanno a rifocillare le vaschette di pop corn e si molla il compagno di sventura lì in sala, tra ste quattro mezze derelitte riproposte dopo anni, a raccontarsela senza nemmeno sapersela raccontare.
I sequel devo toglierli dalla mia programmazione. Raramente hanno senso. Qui in modo particolare. Eppure, con una consapevole ricerca di leggerezza, non certo di un film impegnativo, il primo round me lo sono discretamente goduto. E la voglia di metter piede al cinema per vedermi il proseguo non l’ho manco patita come un dovere da serial watcher, ma proprio con la curiosità di ritrovare queste quattro allegre carampane che all’anagrafe si chiamano Jane Fonda, Candice Bergen, Mary Steenburgen e Diane Keaton, alle prese con le proprie fìsime, piene di storie da raccontare su strepitosi sfondi italiani, immerse nel bello ma senza un movente. Senza un colpo di scena, ma pure senza una scena. Chi me l’ha fatto fare, mi chiedo io. Che ora ho sull’anima anche il primo.
Quella che ormai davamo per buona come zitella arzillla, ossia Jane Fonda, a sto giro si sposa. L’addio al nubilato è la faccenda che da il là al quartetto per ritrovarsi e andare a spasso. I libri ci sono solo nella scena iniziale. Il resto è un film a sé. Con la radice non c’entra nulla. Purtroppo, oserei dire. Al netto dello sposo che è il solito spasimante di cui si era innamorata nel primo film, Arthur, interpretato da Don Johnson.
Le amiche, alla notizia delle nozze, non stanno nella pelle. Rivediamo la giudice in pensione Sharon (Candice Bergen), la chef Carol (Mary Steenburgen), da poco disoccupata, e la vedova allegra Diane (Diane Keaton).
Siamo a poco dalla fine del lockdown, e devo dire che ripiombare in quella noia del distanziamento sociale, dellecomunicazioni via zoom e tutta quella storia lì per me è un po’ troppo presto per farmi assalire anche dall’ottimismo che spinge a godere del fatto che anche questa è passata. Tutto il film sa di muffa, compresi i riferimenti alla pandemia.
La amiche partono per l’Italia, dove si vorrebbe ambientare un viaggio con la funzione di rivelarsi rivelazione per ciascuna delle protagoniste ed invece è trattato in modo che più general generico di così non si può. Carol, protettiva ai limiti dell’ossessione nei confronti del marito Bruce ( con la faccia di Craig T. Nelson), da che lui ha avuto un lieve infarto, ha sempre paura che lui tiri le cuoia in sua assenza. Vivian si trova a fare i conti con i dubbi sul matrimonio, che cozza con le sue convinzioni di sempre e lo vede come una sconfitta personale e banalotta. Sharon, unica un po’ vitale, alza battute divertenti ed si trova a tu per tu con una certa voglia di promiscuità del passato, mentre Diane è concentrata sul capire che cosa fare delle ceneri del marito defunto ma anche del fidanzato ancora in vita, Mitchell , a cui presta il volto Andy Garcia. Mi rendo anche conto che scritta così può addirittura risultare divertente, ma in realtà non c’è nulla che sia minimamente comparabile al precedente ed è per questo che poi il prodotto, nella sua complessità, risulta poco scritto, poco pensato, molto trascinato sui dei cliché triti e ritriti di cui si può fare tranquillamente a meno se si vuole onorare le ceneri (tanto per restare in tema), della pellicola che fu. Che poi non fu il film più bello della storia, ma uno di quei comfort movies che se quella sera entri in sala che ce l’hai col mondo, esci che tutto sommato ti importa anche meno perché hai fatto il pieno di leggerezza, battutine anche grevi ma che ci stanno, e bei luoghi da vedere, popolati da grandi attrici che, a questo giro, senza togliere nulla al loro lavoro che le rende divine anche se leggono le Pagine Gialle, sembravano prese e messe lì a fare la vita di qualcun altro che non si ricorda manco chi fosse nel film prima.
C’è molta approssimazione e molto copia-incolla, ma poco trasporto emotivo su cui far reggere una storia che se non si tiene ritta sul sentimento, poi è normale che si areni.
Anche il finale, parlato con quel linguaggio un po’ da osteria che faceva da traino nella versione uno, qua sembra attaccato con l’attak.


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