Cultura & Spettacolo

VISTO DA – Il caso Mortara di Bellocchio

di Adolfo Spezzaferro -


La storia di Edgardo Mortara è lo spunto perfetto per Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio sul piccolo bambino ebreo tolto alla sua famiglia perché battezzato di nascosto e cresciuto dai preti nel XIX secolo. La pellicola è la summa dei grandi temi ricorrenti nella filmografia del regista del folgorante esordio I pugni in tasca (1965) – la famiglia, la lotta contro il potere, la critica della fede/ideologia, il libero arbitrio. Dopo l’ottimo Esterno notte, suo secondo film sul rapimento Moro, Bellocchio sceglie un altro “rapimento”. Le virgolette sono d’obbligo, perché la storia del caso Mortara è altra cosa dal plot del suo film. Peraltro tutta la vicenda, che in questi giorni sta alimentando polemiche tra i difensori del papato di Pio IX e i suoi detrattori, è raccontata in un memoriale proprio da Edgardo Mortara.
La storia del film dunque ha dei risvolti differenti e si pone degli obiettivi ben precisi rispetto alla realtà dei fatti. Bellocchio, dichiaratamente ateo, sceglie di raccontare una vicenda-simbolo sul potere della fede e del dogmatismo, sul retaggio della religione familiare, sui legami familiari, su un trauma mai sanato: l’essere stato strappato alla propria casa e alla propria numerosissima famiglia a soli sei anni. Il suo film prende dunque spunto dal caso Mortara, così controverso e spinoso da aver fatto desistere addirittura Steven Spi
elberg, per anni interessato al progetto. Detto questo, ossia che non tutto quello che viene mostrato nel film corrisponde alla realtà dei fatti (i genitori del piccolo Mortara non accettarono un accordo con lo Stato pontificio – iscriverlo al collegio cattolico di Bologna fino a 17 anni, quando avrebbe potuto scegliere quale religione abbracciare – e quindi il “rapimento” fu più che annunciato), ecco la trama.
Edgardo Mortara (Enea Sala nella parte di Edgardo da bambino e Leonardo Maltese da adulto, entrambi bravissimi) nasce a Bologna il 27 agosto 1851 in una famiglia di tradizione e religione ebraica. Segretamente e senza consenso dei genitori venne battezzato in articulo mortis dalla domestica cattolica Anna Morisi che riteneva il neonato in punto di morte a causa di una malattia che si rivelerà non così grave. Quando, sei anni dopo, si viene a sapere del battesimo la Santa Inquisizione, rappresentata dal sempre bravo Fabrizio Gifuni (nei panni di padre Feletti) decreta che Edgardo, appartenendo alla fede cattolica, venga educato come tale, secondo le leggi dello Stato Pontificio. Il 23 giugno 1858 i gendarmi pontifici prelevano il piccolo dalla famiglia per trasferirlo a Roma, alla Casa dei Catecumeni, insieme ad altri bimbi nella stessa situazione. I genitori di Edgardo, Momolo (Fausto Russo Alesi) e Marianna (Barbara Ronchi, sempre più brava), non si rassegnano e continuano a cercare di riavere il figlio, sollevando un caso internazionale che vedrà schierati contro il Papa la comunità ebraica mondiale, la stampa liberale e persino Napoleone III. Per il clamore suscitato, per la brillantezza e la fede del ragazzino, Pio IX (l’ottimo Paolo Pierobon) si interessa al caso. I genitori tentano in tutti i modi di riavere il figlio: gli viene concesso di fargli visita, ma le reiterate richieste di restituzione vengono respinte. Il Papa spiega il suo diniego con Non Possumus – la Chiesa non può non fare il bene di un suo fedele. Edgardo, che da sacerdote prenderà anche il nome di Pio (considerato il suo nuovo padre), abbraccia con convinzione la fede cattolica, tanto che cercherà di convertire la madre sul letto di morte.
Ecco, è proprio in questa continua contrapposizione tra le due fedi, con tanto di preghiere e liturgie in latino e in ebraico, che sta la cifra del film: alla fine l’unico culto sano è quello della famiglia. Non a caso, tra i bersaglieri della breccia di Porta Pia c’è un fratello di Edgardo, che non è credente, ma vuole riportarlo a casa, dalla famiglia. Edgardo invece resta a Roma, fedele all’ultimo Papa Re (il cui papato è il più lungo di sempre) e fedele alla sua vocazione e alla sua lunga missione di evangelizzatore (morirà 90enne). Il libero arbitrio dunque è incarnato dal fratello laico, l’unico veramente libero, nell’ottica di Bellocchio.
Il film ha dei pregi indiscussi: oltre all’ottima recitazione di tutto il cast, una bellissima fotografia a lume di candela, quasi caravaggesca, nei suoi rossi accesi vaticani e nelle penombre della dimensione intima. E una incalzante, angosciante colonna sonora. Se volete la storia di Edgardo leggete il suo memoriale. Se volete Bellocchio al 100% – con tanto di inserti onirici, qui toccanti perché relativi anche allo speciale rapporto che il protagonista ha con il Cristo crocefisso -, andate a vedere Rapito.


Torna alle notizie in home