Cultura & Spettacolo

VISTO DA – Un Pupi Avati stavolta da dimenticare

di Adolfo Spezzaferro -


Lo diciamo subito: l’ultimo film di Pupi Avati, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, non è tra i suoi migliori e la mano del regista inizia a risentire dell’età avanzata. Peraltro la pellicola ha delle inspiegabili cadute di qualità, data la maestria dell’autore e la sua lunga e blasonata carriera di cineasta. Un’occasione sprecata, dunque. Perché ci sono tutti gli ingredienti del grande cinema di Avati: la nostalgia, la musica, gli amori giovanili, le storie minimaliste. Il risultato finale però è deludente perché il film scorre troppo lentamente – la durata percepita è almeno raddoppiata – e gira pure un po’ a vuoto. Per non parlare poi di alcune idee rese in modo infelice, come la sequenza del sogno in cui il protagonista rivede il padre. Tutti in sala per lunghi attimi hanno pensato: “Ma cosa sta succedendo?”. Poco professionale poi l’uso del ralenti, le panoramiche di pessima qualità su Bologna, l’uso dilettantesco degli effetti speciali. C’è una sequenza in cui gli attori in scena sono ritagliati rispetto allo sfondo in computer grafica in modo così grossolano da dare l’idea di un prodotto amatoriale.
Insomma, la poetica di tutta una filmografia di amori mancati, di grandi perdenti, di delusioni, della vita che scorre inesorabile avvicinandosi sempre più alla fine, qui è compromessa dalla resa tecnica della pellicola. Si salva la musica, anzi la canzone-tormentone del film (sì, si ascolta molte, troppe volte durante la proiezione), quella che dà il titolo alla pellicola, scritta dallo stesso Avati in coppia con Sergio Cammariere. La canzone è il fil rouge della storia e incarna il sogno infranto, le aspettative deluse, i fallimenti, la disillusione. Tanta musica dunque in un film che usa la musica per comunicare un senso di sconfitta e di morte, dall’inizio alla fine.
Questa la trama. Marzio (Lodo Guenzi da giovane, Gabriele Lavia da vecchio) vuole dar vita a una reunion del duo musicale della sua gioventù, I Leggenda, quando ormai tutto è cambiato e finito per sempre. Ma lui, musicista fallito e ormai anziano, non vuole ammettere a se stesso che l’occasione della vita non verrà più. Per questo va dall’antico sodale Samuele (Nick Rosso da giovane, Massimo Lopez da vecchio), presidente di un istituto bancario, con un cd dei loro pezzi in mano. Ma Samuele sta vivendo una terribile tragedia familiare e lo caccia via in malo modo. L’altro elemento del trio è Sandra (Camilla Ciraolo da giovane, Edwige Fenech da anziana), la “ragazza più bella di Bologna”, ex moglie di Marzio, poi amante di Samuele. La fine dell’esperienza musicale e il doppio tradimento dell’amico e della moglie causeranno la rottura definitiva tra i due, sempre insieme fin dalle elementari. Poi, nel tempo presente, Sandra, ex indossatrice, ricompare mestamente nella vita di Marzio a fine corsa, per avere un tetto sotto cui dormire. Tra continui flashback, la storia, minimalista e fin troppo elementare, è tutta qua. La canzone che dà il titolo al film, viene proposta e riproposta in tutte le salse. A sottolineare l’ossessione del grande perdente Marzio, gelosissimo della moglie. Tanto da azzuffarsi con chi secondo lui avrebbe rivolto alla sua amata un’occhiata di troppo. Arrivando alle mani persino da vecchio, in una sequenza davvero imbarazzante. La recitazione, punto di forza di sempre di questo filone sentimentale di Avati (l’altro è il filone horror), è nelle mani dei due attori che interpretano i protagonisti da giovani. Guenzi di certo il più bravo di tutto il cast (forse è migliore anche del Guenzi cantante), ottimo anche Rosso nella sua interpretazione asciutta ma centrata. Molto bravo anche Lopez, in un ruolo drammaticissimo. Insopportabile invece Lavia, con tutto quel suo repertorio di espressioni da teatro troppo caricate che al cinema stonano. Sul capitolo Fenech diciamo che parlare di interpretazione è un po’ troppo – ha praticamente un’unica espressione tutto il tempo. Ma abbiamo apprezzato l’ironia del regista nel mostrare un ex sogno proibito di tanti film in cui era quasi sempre svestita che pure stavolta vorrebbe fare la doccia ma non ci riesce. Sandra peraltro è la nemesi del protagonista: da giovane mogliettina voleva le pareti della casa tutte blu. Dopo la fine del matrimonio Marzio aveva cambiato il colore, ma ora che è ricomparsa ecco che si rimette a tinteggiare la casa di blu.
Un’ultima nota: il titolo si riferisce alla liturgia cattolica, il tempo ordinario corrisponde alla stagione primavera-estate. La data precisa è il 24 giugno del 1964: il giorno del matrimonio di Pupi Avati.


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