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Viviamo nell’era del “Dataismo”: significato e caratteristiche

di Redazione -


Finiremo davvero col venire inghiottiti nel cyberspazio? Intrappolati senza nessuna via d’uscita in un dedalo di dati e informazioni? Non più capaci di controllare il flusso di numeri, cifre e simboli in cui le nostre individualità si sommeranno tutte in un’unica e anonima identità? Probabilmente anche i più rigidi detrattori del mondo e della cultura digitali risponderebbero che la situazione, per quanto grave e complicata, non è così compromessa come alcuni vorrebbero far credere. Dopo averci ripetutamente messo in guardia, potrebbero essere, per assurdo, proprio loro a doverci ora rimboccare le coperte e a dirci che niente è perduto. Viviamo l’era del “dataismo”: vediamo qual è il vero significato e quali le caratteristiche. Posta in questi termini, la questione può sembrare, oltre che troppo generica, esageratamente drastica. Ma questo è l’effetto che immancabilmente suscita la teoria del dataismo (o “datismo” dall’inglese “datism”) in chi ne sente parlare per la prima volta o in chi, pur avendola già conosciuta, la reputa così insostenibile da classificarla tra le tante profezie di stampo millenaristico che non sono sopravvissute al vaglio degli eventi che le avrebbero dovuto confermare. Il fatto è però che il dataismo sarebbe un processo in corso, del quale si conosce l’origine e ignorano (ma non potrebbe essere diversamente) gli sviluppi finali e le estreme conseguenze. Termine di origine recente quanto il fenomeno che intende definire, il dataismo è, secondo Yuval Noah Harari, la credenza o l’idea che l’intero universo sia o stia diventando un flusso di dati. L’essere umano sarebbe un veicolo della continua e ininterrompibile moltiplicazione dei dati che fa sì che «il valore di ciascun fenomeno o entità è determinato dal suo contributo all’elaborazione dei dati». Così definito, il dataismo somiglierebbe tanto a una catastrofica metafisica della fine del progetto umano sul pianeta Terra, perché concepibile come una tecno-religione che cancellerà, rendendolo inapplicabile e, di fatto, annullandolo, il libero arbitrio umano. Non è la trama in pillole di un romanzo di Philip Dick, ma uno scenario che sempre più filosofi e studiosi dei fenomeni culturali e mediatici stanno prendendo in considerazione. Non saremmo, insomma, di fronte a un’etichetta alla moda con cui designare un fenomeno dalla durata limitata. Ecco spiegato, in breve, il dataismo tra significato e caratteristiche. Si potrebbe decidere di non accordare valore di realtà a quanto accade nella Rete e praticare, in circostanze a dir poco estreme, un totale autoisolamento rispetto a quanto ha a che fare con la società della comunicazione automatizzata: cellulari, pay-tv, bancomat, spid, sino alle bollette elettroniche e alle carte di fedeltà per fruire di sconti su prodotti e servizi nei supermercati. Fare gli eremiti che si tappano le orecchie e bendano gli occhi nel multicolore e assordante villaggio globale sarà un nobile proposito, ma è anche un’impresa disperata. Per avere ragione del web bisognerebbe staccare la spina nel senso letterale dell’espressione. Come ha sostenuto Maurizio Ferraris, «le nostre parole sui social media, le nostre interazioni sul web, diventano solide come alberi o sedie, e diviene vitale una presa di coscienza di questa circostanza. Non c’è niente di più reale del web, e proprio da questo deriva il suo potere». Se Ferraris crede nella possibilità di una ragion pratica 2.0, una sorta di morale per responsabili cittadini digitali fondata su “un’analisi pensante del web”, Harari mostra di avere, invece, meno certezze e fiducia. «Quella che stiamo vivendo – ha scritto in una delle sue 21 lezioni per il secolo presente – è l’era dell’hackeraggio degli esseri umani. Gli algoritmi vi guardano anche in questo momento. Osservano dove andate, cosa comprate, chi incontrate. Presto saranno in grado di controllare tutti i vostri passi, ogni vostro respiro, tutti i battiti del vostro cuore. Usano i Big Data e l’apprendimento automatico per conoscervi sempre meglio. E una volta che questi algoritmi vi conosceranno meglio di voi stessi, potranno controllarvi e manipolarvi, e non potrete fare granché per contrastarli, vivrete in Matrix o nel Truman Show. In definitiva, si tratta di un semplice dato di fatto: se gli algoritmi comprendono quanto vi accade meglio di quanto lo comprendiate voi stessi, l’autorità si trasferirà a loro». Si parla di algoritmi e Big Data per definire la capacità della Rete di gestire una quantità sterminata di informazioni in tempi ridotti e con un’efficacia sempre più raffinata. Non ancora in grado di leggerci nel pensiero, un’Intelligenza artificiale o un computer potrebbero, comunque, sapere prima di noi che cosa decideremo di mangiare nei prossimi giorni o se programmeremo un viaggio in compagnia di amici o parenti. Ogni nostra mossa non passa inosservata nella Rete, comprese anche quelle apparentemente meno sensate. Sarà la Rete ad attribuire loro un senso. In Matrix il protagonista può scegliere, a un certo punto, se vivere nella finzione che tutto sia libero e autentico o se accettare la dura verità che niente di ciò che era stato sino ad allora considerato reale sia davvero tale. È la scena, oggi tra le più conosciute della storia del cinema degli ultimi vent’anni, in cui Morpheus invita Neo a scegliere tra due pillole di diverso colore. La scelta cade sulla pillola rossa che, una volta ingerita, gli rivelerà un mondo reale dominato dalle macchine e non più capace di generare nuova vita. L’angoscia apocalittica di Matrix è attraversata da uno spiraglio di luce, perché all’umanità rappresentata da Neo viene concessa la possibilità di scegliere. Nella visione dataistica di Harari verrebbe meno anche quest’ultima possibilità. Per farsene un’idea, si potrebbe mettere in patica un esperimento suggerito dallo stesso scrittore. Occorre un po’ di immaginazione, ma ci si può provare. Innanzitutto, bisognerà supporre di fare un backup del nostro cervello, simile, se vogliamo, al salvataggio periodico della memoria del nostro pc. I dati contenuti nel cervello verrebbero conservati in un hard drive e poi trasferiti in un notebook. A questo punto, bisognerà solo attendere (o immaginare) quello che potrà accadere. Potremmo scoprire che il nostro dispositivo informatico, in possesso di tutte le informazioni processate dal nostro cervello, è capace di pensare esattamente come noi. Se così fosse, si chiede Harari, saremmo sempre noi o qualcun altro? «Cosa succederebbe se i programmatori di computer potessero creare una mente interamente nuova ma digitale, composta da algoritmi e completa di senso identitario, consapevolezza e memoria? Se fate girare il programma sul vostro computer, diventerebbe una persona? Se cancellaste tutto, potreste essere accusati di omicidio? Forse – conclude beffardamente Harari – sarà possibile avere presto la risposta a queste domande». Il libro in cui lo studioso israeliano formula il suo poco rassicurante esperimento è del 2014. Quasi dieci anni prima l’Human Brain Project diede notizia al mondo intero di voler costruire un cervello umano dentro un computer, dotandolo di complessi circuiti elettronici che riprodurrebbero le sinapsi neuronali. Per Harari sarebbe una delle tante conferme della fine prossima dell’homo sapiens e dei tanti umanesimi che, succedutisi in epoche diverse, hanno sempre avuto come comune denominatore l’affermazione e il primato dell’uomo sulla natura e sulle macchine. (fonte Eurispes)

Giuseppe Pulina


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