Editoriale

WHATEVER IT WAR

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


Whatever it war. Per parafrasare il metodo Draghi, che oggi è il metodo di Bruxelles. Qualsiasi cosa per la guerra. E’ questo il mantra della Commissione Europea, una commissione che non dà risposte all’Europa, che non è in grado di tenerla insieme, che non è riuscita in oltre un anno di conflitto a trovare un solo minuto per parlare di pace. Ma quando si tratta di parlare di soldi, allora l’Unione ha una voce sola. Quella di Ursula è quella che ormai rende questo drammatico scenario di guerra lontano da una soluzione e sempre più vicino a un innalzamento del livello di pericolo al di fuori dei confini ucraini. Per il resto questo mandato europeo è meglio dimenticarlo in fretta. Un governo tenuto in piedi da un rocambolesco accordo, capace di progettare il futuro a parole chiedendo sforzi economici giganteschi ai Paesi dell’Unione già stremati, con milioni di cittadini che hanno perso il proprio futuro e che si trovano impoveriti e al tempo stesso un governo che verrà ricordato per avere sostenuto una guerra chiamata Resistenza, che si rivelerà una delle peggiori scelte per l’Ucraina e per l’Europa intera. Il tutto mentre i migranti restano il tema irrisolto dell’ultimo ventennio europeo, fra tragedie in mare e immobilismo nei Palazzi, capace di produrre solo retorica e di presentare ai cittadini lo scenario di una Unione Europea tutta chiacchiere e distintivo. Esattamente il contrario di quello che sarebbe servito in questa delicata fase di ridefinizione degli equilibri sociali, politici, economici del pianeta. Abbiamo poco da vantarci della nostra cultura millenaria quando ci prendiamo pernacchie da chiunque passi da Bruxelles. Sempre che ci passi, visto che l’ultima volta che il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden è venuto da queste parti è andato a Varsavia e poi direttamente a Kiev, giustamente fregandosene del passaggio europeo, sapendo bene che l’Europa conta zero e soprattutto se vuole fingere di contare obbedisce a lui. Questa è la situazione sotto gli occhi della gente normale. Se poi vogliamo raccontare come fanno nel Palazzo, continuiamo pure a dirci che abbiamo ragione noi, che stiamo facendo il bene dell’Ucraina e il bene del futuro delle democrazie, nel nome della Libertà e di quello che viene definito il modello sociale più avanzato della Terra. Peccato che questo sistema avanzato sia progredito per oltre 50 anni, per entrare in questa fase di ridefinizione dei propri confini culturali e delle proprie capacità di progettare un futuro migliore per gli europei, che hanno contribuito non solo a fondarlo ma a mantenerlo con le proprie tasse in cambio di regole e costi. Non si tratta certo di riaprire il capitolo un po’ ridicolo dell’uscita dall’Unione, anche perché per uscire da qualcosa bisogna che l’altro sia un insieme, non un gruppo di idee e interessi opposti che si muovono in ordine sparso. No, si tratta di intervenire a riformare il sistema delle decisioni riaffidandosi alla volontà popolare, nel nome della quale la democrazia ha un senso prima che sia il popolo europeo a trovare altre forme di contestazione, rovesciando con il prossimo voto, ormai fra un anno, l’impalcatura messa in piedi in questi anni e capace di produrre disuguaglianze e campionati politici di Serie A e Serie B, che oggi sbattono in modo violento contro la realtà e contro gli interessi dei cittadini, nel nome dei quali tutte le decisioni vengono, a parole, prese. Cosa può fare l’Italia? Porre la questione di una Europa politica e imporre un cronoprogramma che rimetta le parole d’ordine su cui siamo nati al centro del dibattito. La pace al posto della guerra, lo sviluppo al posto della recessione, la coesione sociale al posto della rivendicazione identitaria, il rispetto per i cittadini rimasti indietro e per gli Stati che hanno il dovere di aiutare. Fuori dalle scartoffie e dalle statistiche che rendono oggi l’Unione Europea lontanissima da milioni di europei come lei.

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