Editoriale

Tajani e Salvini spaccano la destra: Meloni riuscirà a tenere buoni i demolitori?

di Dino Giarrusso -


Leonardo Sciascia, o meglio un suo ben disegnato personaggio, divideva l’umanità in cinque sotto categorie: “uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraqquà”. Il quaquaraqquà è proprio il gradino più basso della scala, il personaggio meno nobile. Per chi ha letto Sciascia è un’offesa forte, durissima. Forse per questo Forza Italia, tramite il portavoce Nevi, prova a gettare acqua sul fuoco, e spiega che Tajani parlando di “populisti quaquaraqquà” non si riferiva a Salvini, a Durigon né ai leghisti in generale. La toppa è lì, evidente come il buco -largo e profondo- che stavolta ha sfondato la stoffa storicamente coriacea e compatta con cui il centrodestra veste la propria proverbiale unità, contrapposta agli eterni litigi de sinistra. Ma è una toppa che non basta, un tentativo evidente di negare la realtà, e non a caso arriva dopo che Susanna Ceccardi si era fatta sentire, reagendo alle parole di Tajani, che tutti -ma proprio tutti- hanno naturalmente associato alla Lega. L’intervista di Durigon nella quale consiglia al Ministro degli Esteri di farsi affiancare da qualcuno di loro (anche alla luce del rapporto che la Lega ha con Trump), ha colpito nel segno, ed ha mostrato agli italiani (per la prima volta in modo così solare) una crepa evidente e pericolosa dentro la coalizione di centrodestra e il governo. In parlamento, come racconta il nostro Giuseppe Ariola, la tensione è palpabile anche se celata dietro sorrisi da frenatori. La verità è che l’anima “di lotta” della Lega è viva e vegeta, e urla forte quando sente venir meno il consenso ad un partito giudicato da molti troppo “di governo”, salottiero, romanizzato e dominato dagli alleati. Meloni è stata finora bravissima a tenere insieme anime diverse (le lacerazioni brucianti peraltro sono anche dentro FdI, e pure quelle rischiano di toglierle il sonno) nella coalizione che presiede, ereditando la capacità che fu di Berlusconi grazie ad una tacita ma enormemente condivisa regola di condotta: scanniamoci fra di noi ma troviamo sempre una sintesi per mostrarci uniti all’esterno. È il punto forte della destra rispetto alla sinistra, da quando è iniziata la seconda Repubblica, ed anche le sconfitte -arrivate in periodi di risacca e di consensi davvero ridotti nel paese- sono state meno ampie di come sarebbero state senza quella disciplina di coalizione così ferrea. Su questo giornale vi abbiamo raccontato senza fronzoli tutte le contraddizioni del fu campo largo, i tanti partitini/corrente che formano il PD, l’odio della base cinquestelle verso gli alleati e il disprezzo di molti dirigenti piddini verso Conte e buona parte del suo partito. Vi abbiamo raccontato della pantomima di Strasburgo, di Pedullà contro Picierno contro Schlein contro Calenda contro tutti, vi abbiamo raccontato la verità dei fatti constatando quanto sia improbabile che una presunta coalizione -che è in realtà un muretto di cartone fatto da forze che condividono poco e si stimano pochissimo- sappia offrire un’alternativa reale al centrodestra meloniano, che non a caso nei sondaggi rimane forte e distante. Ma le pallottole che sibilano negli ultimi giorni nelle stanze della destra rivelano come le divisioni siano lì altrettanto feroci. Vi racconteremo ancora di ciò che c’è dietro queste liti anche a livello locale (la Sicilia è una polveriera e il Lazio lo sta diventando), ricordando sempre come a pagare carissimo, quando la politica è così divisa e litigiosa, sono in primis i cittadini.


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