Attualità

Credere insieme in un sogno: quando lo sport diventa identità

di Laura Tecce -


Che lo sport possa essere un mezzo per soddisfare bisogni sociali ed emotivi e che gli appassionati di sport possano sviluppare una forte connessione psicologica con la loro squadra o i loro atleti preferiti, innescando meccanismi di appartenenza, identità e soddisfazione di bisogni umani profondi come la socializzazione e l’affiliazione, è ormai assodato. Questa connessione è radicata nella teoria dell’identità sociale, secondo la quale gli individui traggono un senso di autostima dalle loro appartenenze di gruppo, e non è una caso se quasi cinque miliardi di persone in tutto il mondo seguono eventi sportivi con una passione che va ben oltre l’intrattenimento.

Ma cosa c’è dietro questa dedizione viscerale? Lo spiega The “Psychology of Sports Fans”, il recente saggio di Aaron C.T. Smith, professore presso la Royal Melbourne Institute of Technology University, che ha rilevato una sorprendente affinità tra i meccanismi psicologici e neurologici che animano il tifo sportivo e quelli alla base della devozione religiosa. Smith indaga la mente del tifoso e ne esplora le radici più profonde: evolutive, cognitive ed emotive. Nella sua analisi il tifo sportivo assume valenze e connotati che vanno ben oltre l’aspetto ludico e ricreativo ma si rivela una potente espressione del bisogno umano di appartenenza, identità e significato. Lo sport diventa una fede laica, alimentata da bias cognitivi, memorie emozionali e rituali collettivi.

La mente umana, secondo l’autore, è programmata per investire emotivamente in narrazioni che uniscono il gruppo e rafforzano la coesione sociale e si traduce, in ambito sportivo, in un attaccamento profondo a colori, simboli e campioni. Attaccamento che viene rafforzato dal bias dell’ottimismo, che spinge i tifosi ad aspettarsi sempre un risultato positivo, anche contro ogni probabilità, e dal bias di conferma, che li porta a cercare solo le informazioni che confermano ciò in cui già credono: Smith lo spiega con il concetto di “realtà partizionata”, uno spazio mentale separato dalla vita quotidiana, in cui il tifoso sospende il giudizio critico e si abbandona al racconto sportivo. È in questo spazio che si provano speranza, delusione, esaltazione e sconforto; emozioni forti che, vissute collettivamente, rafforzano la resilienza psicologica e i legami sociali.

Non manca, infine, l’analisi delle “euristiche”, ovvero le scorciatoie mentali che ci aiutano a spiegare le sconfitte senza incrinare la fede nella squadra. Dare la colpa all’arbitro, a un periodo di transizione o alla sfortuna serve a proteggere l’investimento emotivo. Che si tratti di una finale guardata con amici, di un coro intonato allo stadio o di un post condiviso sui social, il tifo sportivo – non solo quello calcistico – crea appartenenza e permette di sentirsi parte di qualcosa di più grande. In un mondo spesso frammentato, lo sport si conferma uno dei pochi linguaggi universali capaci di unire le persone. E dietro ogni coro, ogni bandiera e ogni lacrima c’è un desiderio profondo: credere, insieme, in un sogno.


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