Cuba, fallimento rivoluzione: blackout, repressione e fuga di massa
L’ex ambasciatore Domenico Vecchioni denuncia la crisi profonda dell’isola caraibica: «Un inferno tropicale dimenticato dall’Occidente»
Mentre l’attenzione internazionale resta concentrata su scenari ben più esposti – dalla guerra in Ucraina alla crisi in Medio Oriente, dalle tensioni Usa-Cina al ritorno dei dazi – c’è un’isola, a pochi chilometri dalle coste della Florida, che scivola in un silenzioso disastro. È Cuba, l’ultima roccaforte del socialismo caraibico, oggi ridotta a un Paese in ginocchio.
A lanciare l’allarme è Domenico Vecchioni, storico e già ambasciatore d’Italia all’Avana, che in una lucida e durissima analisi denuncia l’agonia di un popolo dimenticato. «A Cuba la situazione è tragica. Il popolo soffre in silenzio, e i giovani vogliono solo andarsene. È diventato un inferno tropicale».
Negli ultimi due anni, oltre mezzo milione di cubani è fuggito dall’isola, in quella che può essere definita una vera fuga di massa. Un dato che non solo racconta la disperazione di chi parte, ma condanna senza appello le promesse mancate della Rivoluzione marxista-leninista: quella che, negli anni Sessanta, proclamava un futuro più prospero persino degli Stati Uniti. La realtà di oggi è invece una fotografia impietosa del fallimento totale di un modello economico e politico.
Dal mito dello zucchero all’importazione: un crollo simbolico
Un simbolo della decadenza è l’industria dello zucchero. Un tempo Cuba era la “regina dello zucchero”, esportatrice globale con una produzione annua tra 7 e 8 milioni di tonnellate. Oggi fatica a raggiungere il milione. «È costretta a importare ciò che l’aveva resa famosa nel mondo», osserva Vecchioni. Una parabola che sintetizza il tracollo dell’intero sistema produttivo collettivista.
Vivere nell’oscurità: blackout, fame e salari da fame
La quotidianità sull’isola è segnata da blackout prolungati, i cosiddetti apagones, che possono durare anche 12 ore al giorno. Le temperature sono soffocanti, mancano cibo, acqua potabile, medicinali. E lo stipendio medio mensile è di circa 30 dollari. Il tutto in un contesto in cui protestare è vietato e le libertà fondamentali sono inesistenti. «Come si può vivere senza luce, senza medicine, senza cibo, e senza diritto di parola?», si chiede Vecchioni. «A Cuba è proibito tutto ciò che non è espressamente autorizzato dal regime».
Riforme cosmetiche, repressione sistematica
Dopo la morte di Fidel Castro, molti speravano in una svolta. Il fratello Raul Castro, più pragmatico, introdusse alcune aperture: accesso ai cellulari, possibilità di acquistare beni privati, allentamenti nei divieti più assurdi. Ma si trattò di riforme di superficie, che non scalfirono la struttura ideologica dello Stato. Anche la Costituzione del 2019, che ha formalmente riconosciuto la proprietà privata e aperto agli investimenti stranieri, è rimasta lettera morta: il Partito Comunista Cubano mantiene la supremazia su ogni altra istituzione e orienta l’intero impianto economico ai suoi obiettivi politici.
Un sistema che sopravvive solo grazie alla repressione
Oggi, l’unica macchina statale che funziona è quella repressiva. Il presidente Miguel Díaz-Canel ha ereditato un sistema collaudato per soffocare il dissenso: più di mille prigionieri politici sono rinchiusi nelle carceri cubane. La stampa è controllata, i sindacati sono unici, il pensiero è unico. A Cuba non esistono né libertà civili né pluralismo politico.
L’indifferenza dell’Occidente: un silenzio colpevole
Domenico Vecchioni, che ha vissuto a L’Avana tra il 2005 e il 2009, conclude con un appello: «Dove sono l’Unione europea, le Ong, i difensori dei diritti umani? Perché su Cuba cala un silenzio che non accompagna mai altri regimi repressivi? Il popolo cubano aspetta da tre generazioni quel “mondo migliore” promesso da Fidel Castro. Ma quel sogno si è trasformato in incubo».
«Cuba è un Paese alla deriva, soffocato dalla miseria e dal controllo ideologico. Non possiamo più far finta di niente».
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