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Intervista ad Emily Blunt, a Venezia con “The Smashing Machine“

di Sacha Lunatici -


È una delle attrici più amate e versatili del panorama internazionale. Dagli esordi ne Il diavolo veste Prada ai successi di A Quiet Place, fino alla candidatura agli Oscar per Oppenheimer, Emily Blunt ha costruito una carriera capace di muoversi con naturalezza tra blockbuster e cinema d’autore, imponendosi come un volto che unisce fascino, rigore e intensità interpretativa. L’attrice britannica, 42 anni, ha fatto della metamorfosi la sua cifra distintiva: ogni personaggio, dal più leggero al più drammatico, porta con sé una sfumatura nuova e riconoscibile. Alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia è stata protagonista di uno dei film più applauditi, The Smashing Machine di Benny Safdie, accolto da sedici minuti di standing ovation. La pellicola, che arriverà nelle sale italiane il 19 novembre, racconta l’ascesa e la caduta del campione UFC Mark Kerr, interpretato da Dwayne Johnson. Non solo un film sportivo, ma un viaggio nell’abisso della dipendenza e nell’intensità di un amore feroce. In questo universo fatto di ring, dolore e fragilità, Emily Blunt interpreta Dawn Staples, fidanzata e poi moglie di Kerr: un ruolo che porta in primo piano la voce di chi vive accanto a un uomo apparentemente invincibile, ma nel privato attraversato da conflitti e vulnerabilità.
Cosa l’ha attratta di questo ruolo?
“Sono stata felice che ci fosse una donna dentro un mondo così dominato dal machismo e dall’idea di invincibilità maschile. Dawn permette di raccontare non solo la gloria del campione, ma anche la vulnerabilità nascosta dietro quell’immagine. Era importante dare spazio al suo punto di vista, perché troppo spesso queste figure restano nell’ombra, schiacciate dalla narrazione dell’eroe”.
Quanto si è immedesimata in lei?
“Molto. Ho conosciuto bene Dawn Staples e mi sono immedesimata così profondamente che a volte pensavo che le sue emozioni fossero le mie. È stato emozionante, quasi come vivere la sua vita in prima persona. Ho provato la sensazione di respirare lo stesso clima che lei ha respirato, fatto di tensione, ma anche di amore viscerale”.
Nel film non vediamo solo l’arena, ma anche le mura di casa. Quanto è importante questo punto di vista?
“Fuori dal ring si capisce cosa significhi davvero stare con un fighter, vivere il mondo totalizzante che ne deriva. Dawn condivide con Mark tutto: le esplosioni di rabbia, i rimpianti, i momenti pericolosi, ma anche un amore e una devozione assoluti. Era fondamentale mostrare che l’eroismo e la fragilità convivono nello stesso spazio, e che accanto al campione c’è una donna che affronta ogni onda di questo mare in tempesta”.
In che modo ciò cambia la rappresentazione di una coppia al cinema?
“Non è la solita relazione semplificata per lo schermo. Qui vediamo lo spettro completo di un rapporto, dove le persone possono cambiare anche nel giro di un’ora. Ci sono momenti di passione e di distruzione, e Dawn deve navigare attraverso entrambi. Per me era fondamentale restituire la verità, senza sconti e senza idealizzazioni”.
L’ambientazione negli anni Novanta sembra accentuare il tema del machismo…
“Sì, era l’epoca dell’uomo macho e invincibile, un’immagine amplificata dall’arena dell’UFC e dalla cultura di quegli anni. Ma la storia non riguarda il pugno alzato, riguarda piuttosto la caduta, il peso di un’immagine che non si può sostenere per sempre e la fatica di doverla mantenere davanti a tutti. Questo rende Mark un personaggio tragico, e allo stesso tempo umano”.
Questo sguardo ha influenzato anche la sua interpretazione?
“Certamente. Lavorare a fianco di un personaggio così fragile mi ha fatto capire quanto il contesto storico e culturale fosse determinante nel costruire — e nel distruggere — quell’immagine di forza assoluta. Dawn non è solo spettatrice: è parte attiva di questo sistema, lo vive sulla propria pelle e lo interiorizza. Portare tutto questo sullo schermo è stata una sfida, ma anche una delle ragioni che rendono il film così potente”.
Che tipo di regista è Benny Safdie?
“Viscerale, spontaneo, mai prevedibile. Ogni giorno ci toglieva strati di protezione e ci spingeva a essere autentici. Ha colto perfettamente le dinamiche emotive di una coppia, con tutte le sfumature possibili. È una regia che non lascia spazio alla falsità: ci chiedeva di mostrarci vulnerabili, e questo ha reso l’esperienza profondamente vera”.
E com’è stato lavorare con Dwayne Johnson?
“Una delle esperienze più straordinarie della mia carriera. Vederlo svanire dietro Mark Kerr è stato impressionante: non era più Dwayne, era davvero il personaggio. Ha una fisicità immensa, ma ha saputo lasciarsi attraversare dalla vulnerabilità in modo sorprendente. Sul set ho visto la sua dedizione totale, la capacità di spogliarsi della star che tutti conoscono per diventare un uomo ferito, fragile, ma incredibilmente umano”.


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