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Sport

Medaglie e interessi globali: lo sport come specchio della geopolitica

di Laura Tecce -


Oggi, come in passato, campi da gioco e piste olimpiche si trasformano in arene geopolitiche: i grandi eventi non sono soltanto spettacolo e competizione ma anche strumenti di potere, palcoscenici dove si giocano battaglie di immagine, identità nazionale e diplomazia.

Con i Giochi Olimpici e Paralimpici invernali di Milano-Cortina 2026 l’Italia non ospiterà soltanto una manifestazione sportiva, ma un evento con inevitabili ricadute internazionali. Il dibattito sull’ammissione di atleti russi e bielorussi, in un contesto ancora segnato dalla guerra in Ucraina, dimostra quanto sia difficile difendere la neutralità olimpica. Il Comitato Olimpico Internazionale e la sua nuova presidente, Kirsty Coventry, hanno annunciato che adotteranno lo stesso approccio di Parigi 2024, con gli atleti russi e bielorussi che potranno partecipare sotto bandiera neutrale, senza inno e rispettando determinate condizioni.

Una decisione non in linea con quella del Comitato Paralimpico Internazionale (IPC), che al contrario ha revocato la sospensione di Russia e Bielorussia dando la possibilità agli atleti di competere con i simboli nazionali. Una divergenza che mette in luce quanto sia complicato trovare un equilibrio tra coerenza istituzionale e principi di inclusione. Gli stadi e le arene non sono più luoghi neutri: diventano spazi di protesta, dove atleti e tifosi esibiscono simboli, bandiere, prese di posizione.

Alcune federazioni puniscono questi gesti, altre li tollerano, ma la questione resta aperta: un atleta che mostra solidarietà verso una causa internazionale compie un atto politico o personale? È possibile separare il gesto sportivo dal contesto sociale e dalle tensioni che attraversano il mondo? Inoltre, come non considerare che anche l’economia dello sport risente dei conflitti globali?

Le sanzioni possono bloccare diritti televisivi miliardari, impedire a certi club di accedere a mercati fondamentali, ridefinire gli equilibri delle federazioni. Sul fronte globale cresce poi il ruolo del soft power sportivo, cioè l’influenza e il potere attrattivo esercitati da uno Stato attraverso la cultura sportiva e gli eventi sportivi per raggiungere i propri obiettivi.

Esempio lampante di questa tendenza è la Cina, che “usa” lo sport come veicolo di immagine positiva; ma lo sono anche Qatar e Arabia Saudita, che hanno reso degli investimenti sportivi un loro fiore all’occhiello: dai Mondiali di calcio ai circuiti di Formula Uno fino all’acquisizione di club calcistici europei. Operazioni che portano risorse e visibilità, ma sollevano una domanda inevitabile: siamo davanti a un autentico sviluppo dello sport o a una gigantesca operazione di “sportswashing” pensata per ripulire l’immagine di regimi autoritari?

Tutte considerazioni che portano inevitabilmente ad una riflessione: lo sport non è mai stato davvero neutrale. È identità, bandiera, appartenenza. Negli anni della Guerra Fredda come oggi, ogni medaglia, ogni vittoria, ogni esclusione ha un significato che va oltre il campo. Illudersi che lo sport possa restare immune dalla politica è ingenuo. La sfida, semmai, è riuscire a trasformarlo in un ponte tra popoli, invece che in un’ulteriore arena di conflitto. Se lo sport è potere, spetta a chi governa decidere se usarlo come arma o come linguaggio universale di pace.

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