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A Milano Sato Sushi Experience: “Assapora finché godi”

di Nicola Santini -


C’è chi quando sente “all you can eat” pensa subito a una gara a chi scoppia prima. Poi c’è chi ha capito che la quantità non esclude la qualità, e che si può uscire da un sushi senza sentirsi un tonno in scatola. Sato Sushi Experience a Milano nasce da questa idea semplice ma rivoluzionaria.

Un ristorante dove il “mangia finché puoi” si traduce in “assapora finché godi”. Una formula che da sola basterebbe a spiegare come mai, in via Lazzaro Palazzi 6, sia diventato un piccolo culto per chi del sushi ama la sostanza, non la scenografia da Instagram. Dietro al bancone, mani giovani ma esperte: tutto under 40, dicono con orgoglio.

Sato Sushi non solo tecnica e bellezza

Leonardo Zhu, l’ideatore, è il tipo di imprenditore che crede che la qualità non debba restare chiusa in un tempio per pochi eletti. Ha preso l’idea dell’all you can eat e l’ha lavata con l’acqua di riso della tradizione giapponese, asciugandola con il rigore di chi sa che un nigiri sbagliato vale quanto un delitto. Con lui, una squadra che ha l’aria di divertirsi mentre lavora — cosa rara e pericolosa — e che ha deciso di servire il sushi come un’esperienza, non come un elenco di piatti.

Il sushi chef Xu Shimao è l’uomo del bisturi di riso: preciso, concentrato, taglia il tonno come un chirurgo estetico taglierebbe un segreto. Accanto a lui, Zhang Caiwei costruisce equilibri di temperatura e consistenza come se stesse componendo un haiku. In sala, l’atmosfera è quella di un Giappone educato ma non rigido, con tocchi di modernità che non ti fanno sentire in un franchising con le lanterne appese. Si ordina dal tablet, ma l’esperienza è tutt’altro che digitale: ogni piatto arriva con una presenza scenica che mette in imbarazzo molte cucine stellate.

Sato Sushi è un omaggio: il nome di chi ha insegnato a Leonardo che cucinare è prima di tutto condividere. E in effetti, seduti lì, tra uno Zuke Maguro e un Millefoglie di Tonno, si percepisce una certa intimità. È come se il sushi ti parlasse: poche parole, tanto contenuto. Poi arriva il Black Cod, che fa il suo ingresso come un divo hollywoodiano con la modestia di chi sa di valere. Il Teppan Kobe, invece, è la versione carnivora del Giappone elegante, mentre l’Uramaki Wagyu è il compromesso perfetto tra follia e delicatezza. Persino il Pad Thai ai gamberi, che di giapponese ha poco, trova il suo posto come ospite d’onore nel menù di un locale che non teme la contaminazione, purché sia di classe.

Ogni portata un racconto

C’è una frase che i soci ripetono come un mantra: un all you can eat può e deve essere sinonimo di eccellenza. E in effetti qui ci riescono, senza l’arroganza dei ristoranti che ti servono due chicchi di riso su un piatto bianco largo quanto un campo da tennis. Ogni portata è un piccolo racconto, curato, calibrato, bello da guardare e ancora meglio da mangiare. Ti viene quasi voglia di fotografarlo, poi decidi di rovinare la composizione con la forchetta (o meglio, con le bacchette), perché certe bellezze non meritano di restare ferme in un feed.

Eppure Sato Sushi non è solo tecnica e bellezza. È accoglienza, è ritmo, è quella sensazione di leggerezza che ti fa pensare di aver cenato bene senza pentirti dopo. L’ambiente raffinato ma non impostato, il servizio attento ma non invadente, l’odore pulito del pesce fresco: sono dettagli che a Milano, dove il sushi è diventato una religione laica, fanno la differenza tra un locale di passaggio e uno dove torni volentieri. Il paradosso perfetto: un all you can eat che non ti fa vergognare di dirlo. Ci vai per saziarti ma esci sentendoti elegante. Ti offrono tutto, ma ti resta la voglia di tornare. E in un mondo dove l’eccesso è spesso l’altra faccia della mediocrità, non è poco. Qui si mangia tanto, sì, ma bene. E questo, a Milano, è già un miracolo zen.


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