Riformisti Pd: il ritorno degli assenti giustificati
Tra ambizioni rinnovate e vecchie formule, i riformisti del Pd provano a rientrare nel dibattito politico: stessi volti, nuove urgenze, ma il partito sembra ancora in cerca di una direzione.
Sembra il primo giorno di scuola, ma da ripetenti. I riformisti del Partito Democratico si sono ritrovati a Milano per l’iniziativa “Crescere”, con l’aria di chi torna in aula dopo mesi di silenzio, convinti di avere ancora qualcosa da insegnare. Solo che il registro è cambiato, la classe è divisa e il preside non li guarda più con simpatia. Non è una corrente, non è una rivolta, ma nemmeno una passeggiata. È il tentativo di rimettere insieme i pezzi di un’identità smarrita, di dare forma a un’alternativa che oggi non si vede, non si sente, non si capisce.
Elly Schlein, con la calma di chi ha imparato a non reagire a ogni scossa interna, liquida il fermento con una frase da manuale: “Benissimo la discussione interna, ma ora concentriamoci sulla manovra e sulle Regionali”. Tradotto: fate pure, ma non aspettatevi risposte.
Intanto, la maggioranza che la sostiene — Areadem, Dems, Articolo 1 — prepara le giornate di Montepulciano. Nessuna corrente, nessuna congiura, solo “rete tra le anime”. Ma nel Pd, ogni “rete” rischia di diventare una trappola.
Dal territorio, Beppe Sala lancia il messaggio più brutale: “Prima di cercare alleati, il Pd deve capire chi vuole essere”. Una frase che suona come una diagnosi: identità smarrita, direzione incerta, ambizione evaporata.
Piero Fassino, fondatore del Pd, non fa sconti: “L’opposizione al governo Meloni c’è, ma non è percepita come alternativa”. I riformisti vogliono colmare il vuoto, ma sembrano più intenti a ricordare cosa erano che a dire cosa vogliono diventare.
Lorenzo Guerini, con tono da tecnico istituzionale, chiarisce: “Non siamo qui per mettere in discussione la leadership, ma per rafforzarla”. E aggiunge: “Serve un’alleanza ampia, come richiede la legge elettorale”. Ma il Pd, oggi, sembra più un condominio che una coalizione.
Giorgio Gori, europarlamentare e volto liberal, difende il riformismo come patrimonio interno: “Non si può appaltare a partiti creati in laboratorio”. Peccato che nel frattempo l’Italia galleggi, e il Pd pure.
Lia Quartapelle chiude il cerchio con un appello alla concretezza: “Cosa proponiamo a chi non è già con noi?”Una domanda che pesa come un macigno. Perché se il Pd non sa più parlare ai moderati, ai produttivi, ai pragmatici, allora a chi parla?
Alla fine, il quadro è chiaro: i riformisti raccolgono i cocci di un’identità che il Pd ha lasciato cadere. Provano a rimetterli insieme, ma il collante è debole. E mentre il partito si interroga su chi è, il Paese si chiede se abbia ancora qualcosa da dire.
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