Primo Piano

Aggiorniamo le nostre  mappe cognitive per il post pandemia    

di Redazione -


 

«Ci eravamo illusi che l’emergenza fosse passata. In realtà siamo ancora dentro il tunnel, dovremo abituarci a convivere con il virus, adottando atteggiamenti e misure adatte alla evoluzione del contesto. Stanno mutando assetti socio-economici e culturali e psicologici, per cui non è esagerato dire che siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione epistemologica, che sta sconvolgendo la mappa delle nostre conoscenze. Le imprese e, più in generale, le organizzazioni produttive, dovranno investire nella direzione di competenze specifiche relative ai sistemi riguardanti la Health Organization, la sostenibilità e la difesa dell’ecosistema».

Roberto Panzarani (docente di governo dell’innovazione tecnologica dell’Università Cattolica di Roma), autore di numerose pubblicazioni sui temi della governance dell’innovazione (Viaggio nell’innovazione, Humanity: la conquista sociale dell’impresa; Sense of community; Il viaggio delle idee per citarne alcuni n.d.r) tratteggia lo scenario di questo difficile autunno che ci aspetta, sottolineando il valore imprescindibile della formazione, leva strategica essenziale in una fase di profondo cambiamento come quella che stiamo attraversando.

 

Il “Nuovo paradigma” è il titolo del saggio su cui sta lavorando. Che cosa dobbiamo fare per orientarci nel mondo che verrà?

Dobbiamo avere la consapevolezza socratica di chi “sa di non sapere”. Il virus ha colto tutto il mondo impreparato; sappiamo poco sulla genesi: è arrivato da un laboratorio, si è propagato per superficialità e noncuranza in ragione di stili di vita che dovremo al più presto rivedere? Non abbiamo risposte definitive, una cosa però appare indiscutibile: la crisi che avvolge il pianeta è una crisi di sostenibilità. Su questo filone è già nata, anche se ancora non sufficientemente praticata l’economia circolare, che andrà a generare nuovi saperi, con la possibilità di creare professionalità e quindi opportunità di lavoro.

 

Lo choc di questi mesi si è tramutato in uno straordinario acceleratore di cambiamento per imprese, Istituzioni e, non dimentichiamolo, per la scuola chiamata a fare un grande sforzo Per quale ragione su un aspetto così importante, si è insistito così poco?

I “declinisti” di maniera sono sempre la maggioranza delle voci, in un coro spesso condizionato dall’onda emotiva che fatti eclatanti, come la terribile pandemia che ha investito il globo, portano con sé. A di là delle reazioni istintive credo che bisogna approfondire il cambio nella metodologia – ma anche nel modo di concepire e praticare il lavoro – intervenuta nei mesi del lockdown. Molte persone hanno scoperto, potremmo dire tardivamente, il valore della Rete, si sono trovate “on line” sperimentando un brusco salto di prospettiva. La grande differenza rispetto al passato non è data dalla strumentazione, che già esisteva, ma dalla quantità di lavoratori che hanno fatto ricorso allo smart working. Questo vuol dire che il primo passo da fare riguarda il potenziamento dell’infrastruttura digitale, che rimane una delle questioni irrisolte nel nostro Paese. Basta riflettere su un dato: dove Internet è più utilizzato i livelli del Pil sono più alti. Non si tratta dunque di essere “apocalittici” o “integrati”, ma di guardare la realtà.

 

Nel suo saggio si sofferma sulle modifiche cognitive cui dovremo abituarci. A che cosa si riferisce in particolare?   

Deve cambiare il nostro approccio. Da adesso, e non sappiamo per quanto tempo, dovremo convivere con un virus che sta incidendo sui comportamenti di tutti. Stazioni, aerei, aziende, luoghi di incontro e di apprendimento stanno facendo i conti con le misure del “distanziamento sociale”, parola fino a ieri sconosciuta ai più. Governi e cittadini dovranno adottare forme di intervento strutturale, che cambieranno il profilo e il nostro stesso modo di vivere le città. La modifica cognitiva, cui lei faceva riferimento nella domanda, è proprio questa. I pilastri stessi su cui si fonda la nostra capacità di convivenza verranno modificati. Cambieranno linguaggi, sistemi di apprendimento in una direzione che ancora non sappiamo. Dovremo insistere sullo sviluppo dell’“infosfera”, per usare la definizione di Luciano Floridi, perché il mondo sarà più “digitale” dopo la pandemia.

 

Lei ha lavorato a lungo nel mondo della formazione, contribuendo alla creazione di business school importanti come quella di Alitalia, ha anche operato come docente per Ernst & Young, Eni, Enel, Fiat e per l’Aif. Quale può essere il ruolo delle Academy che operano nelle realtà organizzative delle grandi aziende?   

Tutte le grandi compagnie, almeno fino agli anni Novanta, avevano importanti Corporate University. Alcune di queste esperienze si sono purtroppo arrestate in una fase in cui hanno prevalso criteri rigidamente finanziari nelle scelte strategiche. Adesso si sta finalmente comprendendo l’importanza che rivestono gli investimenti sul terreno delle competenze, perché è la formazione che può creare mercato e non viceversa. Academy, Fondazioni e Corporate University aziendali, sono dei centri di sapere fondamentali, che rafforzano il business se correttamente gestiti e debitamente aggiornati.

 

Non crede che bisognerà intervenire anche sulla qualità delle  docenze, in una mappatura delle discipline che non ha nulla a che vedere con l’impostazione tradizionale, risultata dominante nel mondo della scuola, e più in generale della formazione per tutto il secolo scorso?

Ho cercato di spiegare che quello di cui avremo bisogno è coltivare un sapere generativo, utile a orientare le nostre scelte in un contesto socio-economico in perenne mutazione. Non va sottovalutato un aspetto importante: la componente fisica nell’insegnamento a qualsiasi livello non dovrà essere cancellata. Adottare le misure di sicurezza non deve tradursi nella cancellazione del rapporto, che è anche fisico oltre che dialettico, tra docente e discente. Da molti anni ho cercato di adottare la formula del learning tour, sollecitando manager e imprenditori a visitare i luoghi dell’innovazione. Vedere cose che accadono, respirare il climax positivo di ambienti che innovano genera un influsso positivo, che aiuta a costruire una “testa ben fatta” come diceva il grande pensatore francese del Cinquecento, Michel de Montaigne, che è sempre molto meglio che una “testa ben piena”: magari satura di informazioni, ma di fatto incapace di fare quella selezione critica dei contenuti, che è la chiave per muoversi nell’universo della complessità.

Massimiliano Cannata


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