Attualità

Altro che Terza Via. È tempo di giustizia sociale

di Redazione -


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

 

In un articolo scritto per questo giornale alcune settimane fa avevamo sostenuto che, per dare vita a un soggetto liberal-democratico, è necessario offrire una casa ai riformisti. Ma la parola “riformismo” rischia di suonare a vuoto se non si comincia a distinguere. Dal momento che nessuno professa posizioni rivoluzionarie o anti-sistema e si propone di affossare il capitalismo o di sovvertire i principi alla base dello Stato democratico di diritto, occorre partire dal fatto che le linee di differenziazione politica dipendono dai diversi modi in cui questa parola viene di volta in volta intesa, declinata e applicata. E distinguere significa, per esempio, differenziare i riformisti a seconda del ruolo che assegnano alla politica rispetto ai mercati (assecondarli o regolarli?), ai corpi intermedi e alle organizzazioni della società civile (tutelarli o scoraggiarli?), all’intervento pubblico e alle sue articolazioni (escluderlo o promuoverlo?). Tutti, tra quelli che guardano con giustificata preoccupazione al tentativo della destra di imporre l’egemonia di una cultura conservatrice, quando non scopertamente reazionaria, fanno professione di riformismo – ma quale?
Per affrontare la questione occorre andare alle radici della cultura riformista invocata dal Partito Democratico al momento della sua fondazione. Il Pd era nato all’epoca in cui l’iperglobalizzazione neoliberale sembrava non incontrare più ostacoli sulla propria strada, anche per l’assenza di alternative. La scelta dei riformisti di allora – non solo italiani: basti pensare alla famosa “Terza via” di Clinton e Blair – fu quella infatti di optare per una forma di riformismo adattivo, nel senso di riformare la società per adattarla al capitale piuttosto che di riformare il capitale per adattarlo alla società. Era l’epoca in cui si affermava un paradigma economico che individuava il motore principale della crescita nelle politiche dell’offerta, mentre le politiche macroeconomiche discrezionali – e cioè, in particolare, la leva della spesa pubblica in deficit – venivano considerate inutili o persino dannose. Lo strumento di politica economica più adatto ai fini della crescita economica veniva così individuato nelle cosiddette “riforme strutturali”, volte a eliminare o ridurre le rigidità che imbrigliavano l’iniziativa privata e a trasformare le istituzioni in strumenti funzionali alle disposizioni del mercato, colpendo in particolare lo Stato sociale. E in effetti le riforme non sono mancate: nel campo del lavoro, delle pensioni, della scuola, dell’università, della Pubblica amministrazione. Ciò nonostante, gli indicatori economici e sociali relativi al nostro paese non hanno mostrato segni tangibili di miglioramento. Anzi, le destre sono state pronte a intercettare il disagio sociale provocato da interventi che, invece di addomesticare il capitalismo per rendere la società più equa, o almeno un po’ meno iniqua, hanno acuito la frammentazione e la corrosione del corpo sociale.
Non è stato un caso. Quel riformismo nasceva subalterno all’idea che le forme della produzione, le modalità della politica e gli assetti di potere imposti dalla iperglobalizzazione neoliberale non avessero alternative. È stato il trionfo della politica come “cacciavite”, cioè come la serie di interventi circoscritti e delimitati che si rendono necessari quando – e solo quando – la macchina si inceppa o perde colpi. Interventi che possono essere fatti solo da un meccanico dotato delle giuste competenze, ovvero un partito di governo. La scelta di riformare soltanto il lavoro e non anche il capitale – come invece si era deciso con il compromesso socialdemocratico che aveva dato vita ai “Trenta gloriosi” – si è rivelata però perdente già in partenza, perché il Pd nasceva in concomitanza con la devastante crisi finanziaria scoppiata tra il 2007 e il 2008 e protrattasi nelle sue conseguenze fino alle soglie della pandemia. Una crisi capace di travolgere l’economia reale e di mettere a nudo l’inconsistenza dell’ideologia neoliberale, che prometteva di rendere il lavoro partecipe delle opportunità economiche offerte dal mercato sullo stesso piano del capitale.
È stato il fallimento di “questo” riformismo a rendere oggi improcrastinabile la proposta di un riformismo trasformativo, capace di compiere le scelte necessarie a ristrutturare un sistema economico appesantito da privilegi corporativi che fanno a pugni con ogni esigenza di equità. A cominciare da interventi sulla struttura produttiva e sul mercato dei capitali, che rappresentano, più ancora del lavoro, la benzina che alimenta il motore dello sviluppo. E, a seguire, interventi sul sistema fiscale, che, se da un lato rispecchia il modello di società che si ha in mente, dall’altra è lo strumento per realizzarlo: a vantaggio di tutti o solo di pochi? Ma l’elenco potrebbe – dovrebbe – continuare a lungo: si tratta di promuovere riforme volte a trasformare l’esistente in modo da ridurre diseguaglianze insostenibili, salvaguardare il territorio, l’ambiente, la salute… Nella consapevolezza, tuttavia, che riformismo, oggi, non può più significare adattamento, poiché solo una forza politica capace di rompere con il sistema di privilegi che soffoca ogni iniziativa, anche solo modernizzatrice, può avere titolo a recuperare le migliori tradizioni del riformismo di matrice sia liberale che socialista.


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