Cultura & Spettacolo

AND THE LOSER IS

di Redazione -


di LORENZA SEBASTIANI
Cala il sipario sulla notte degli Oscar 2023, l’edizione più temuta di sempre dagli organizzatori dopo lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock dello scorso anno, che è valso al primo l’esclusione per dieci anni dai cerimoniali targati Academy. Un’edizione in punta di piedi quella che abbiamo appena visto, nonostante qualche momento imbarazzante non sia mancato. Come quello tra il conduttore Jimmy Kimmel e l’attivista 25enne Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice del premio Nobel nella storia, che si è sentita rivolgere da lui la domanda «pensi che Harry Styles abbia sputato su Chris Pine?”, riferendosi alle voci sul dubbio episodio avvenuto tra i due attori alla proiezione di Don’t Worry Darling all’ultima mostra del cinema di Venezia. «Parlo solo di pace», ha risposto lei laconica e visibilmente disorientata. O ancora la frase shock del solito Hugh Grant, ormai avvezzo alle cadute di stile, che non ha mancato di paragonare la propria faccia avvizzita dall’età a uno scroto.
A parte questi momenti da dimenticare (ma forse anche per questi) la celebrazione degli Oscar è da sempre tra gli eventi mediatici più seguiti al mondo, ma anche tra i meno controllabili, per l’ingente densità di menti ‘su di giri’ sul palco e per il fatto che, trattandosi per lo più di miliardari, il rischio del pagamento di eventuali penali non è un sufficiente deterrente.
La parte che fa riflettere deriva però dal nostro Pierfrancesco Favino, attore stimato anche all’estero, che però non gode oltreoceano di una degna valorizzazione. A poche ore dalla cerimonia, rilascia pubblicamente delle dichiarazioni sulla situazione degli attori italiani in America. Sul Giorno-Carlino-Nazione lancia una accesa discussione sulla tendenza degli Usa a usare attori stranieri per ruoli italiani, con il risultato – secondo lui – di ottenere rappresentazioni da macchietta. «Non ce l’ho con Adam Driver o Al Pacino – specifica – Però perché Hollywood sceglie loro per interpretare Gucci o Ferrari e non un attore italiano?».
Attori stranieri per interpretare italiani, spesso con accenti meridionali caricaturali, come se l’italiano all’estero dovesse sempre essere rappresentato per stereotipi arretrati. Poi, la stoccata: «In un mondo in cui si parla tanto di inclusività e di rispetto siamo l’unica eccezione alla regola?». In effetti il perbenismo dell’Academy su questo è cieco. E anche quest’anno, infatti, ha diretto la propria attenzione altrove.
Consistente l’attenzione verso attori orientali, cavallo di battaglia dell’ultima edizione. Ma l’Academy non fa nulla a caso. Le produzioni asiatiche si stanno mangiando il mercato cinematografico e seriale internazionale, tanto vale tenere buona una fruttuosa fetta di possibili collaborazioni. Trattamenti trionfalistici, quindi, per gli attori orientali presenti in gara: mai nella storia dell’Academy due di loro avevano vinto nello stesso anno. Notevole, quindi, la vittoria di Michelle Yeoh come miglior attrice, che ha portato sul palco un discorso centrato e vincente, per incoraggiare anche le donne mature. Alla fine ha battuto Cate Blanchett, definendo il film che l’ha fatta vincere a sessant’anni (Everything Everywhere all at once, che ha collezionato sette statuette) “Un faro di speranza, per tutti i bambini e le bambine che mi assomigliano”. Poi ha lanciato non solo una freccia, ma tutto l’arco, sapientemente. «Dedico il premio a tutte le donne: non lasciate che nessuno vi dica che hai passato i tuoi anni migliori”. Pochi giorni prima della premiazione, però, la Yeoh non pareva così magnanima verso le altre donne. Si era pubblicamente espressa contro Cate Blanchett, collega a sua volta candidata quest’anno nella stessa categoria per Tár, condividendo un post in cui si sottolineava che la Blanchett avesse già vinto due Oscar e che da ben vent’anni non vincesse un’attrice non bianca. Insomma Yeoh, moglie di Jean Todt, ex amministratore delegato della Ferrari, ha saputo vestire la sua palese smania di premiazione di un furbo alone umanitario. Il collega Ke Huy Quan, invece, ha vinto come migliore attore non protagonista. Il vietnamita, 51 anni, ha dedicato l’Oscar alla madre ottantenne che lo guardava da casa. E poi ha rincarato la dose con un discorso commovente. «Sono arrivato su un barcone e ora sono sul palco più importante di Hollywood. Dicono che tutto questo si veda solo nei film, non posso credere sia accaduto a me. Questo per me è il sogno americano», e via l’abbraccio ad Harrison Ford con cui aveva recitato da bambino in Indiana Jones e Il Tempio della Paura. L’attore in questione è stato usato dal sistema Academy senza nemmeno accorgersene. Una serata, quindi, imbastita all’insegna di ciò che sia giusto dire, della celebrazione di un’America che torna a dipingersi come grande, accogliente, senza sbavature, né inciampi ammessi. Everything Everywhere diventa allora un funzionale asso pigliatutto, persino nel lezioso argomento trattato, fatto di avventure nel multiverso della lavandaia Evelyn Wang, apparentemente avanguardista e multiculturalista. I giurati più anziani, però, hanno espresso il proprio parere a favore del tedesco Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Edward Berger, tratto dal romanzo di Eric Maria Remarque, che ha ottenuto comunque quattro premi (cinematografia, miglior film internazionale, set e colonna sonora).
E via ancora ai messaggi politici. Nonostante il divieto di facciata da parte dell’Academy al presidente ucraino Zelensky di inviare qualche parola da Kiev, il messaggio è arrivato indirettamente al momento della premiazione di NAVALNY, docufilm di Daniel Roher sul tentativo del Cremlino di avvelenamento di Alexei Navalny, nemico giurato di Putin. Yulia, la moglie del dissidente, sul palco ha tessuto le lodi del marito attivista: “E’ in prigione per aver difeso la democrazia. Sogno il giorno in cui sarà libero e sarà libero il nostro paese”. Altro momento attivismo anche per l’attrice Jamie Lee Curtis, che ha stupito per onestà intellettuale. Premiata come miglior attrice non protagonista (sempre per Everything everywhere) si è espressa contro l’intenzione di togliere il genere maschile e femminile dalle categorie di premiazione, dinamica al momento in valutazione da parte dell’Academy. «Da madre di una figlia trans capisco il problema, ma togliere il genere dalle categorie è un rischio. Si rischia di vedere sempre meno donne nominate». E poi arriva il momento dell’Italia e delle sue delusioni. Le Pupille di Alice Rohrwacher è stato battuto da An Irish Goodbye nella categoria dei corti live action, e così anche Aldo Signoretti, candidato per le acconciature di Elvis. Gradito e atteso, invece, il ricordo di Gina Lollobrigida, assieme all’artista del makeup Maurizio Silvi, nel breve segmento In Memoriam.
E poi, largo sul palco a superstar come Rihanna reduce dal Super Bowl e Lady Gaga, che si è fatta notare per aver soccorso un fotografo inciampato nel backstage. Questo, una volta rialzatosi, le ha battuto il fianco in segno di spontaneo ringraziamento, ma è stato subito condannato dal tribunale dei social per presunte molestie verso la cantante.
Una considerazione su tutte. Siamo in piena epoca “woke”, che letteralmente significa ‘sveglio’, o meglio ‘stare all’erta’ verso presunti soprusi a sfondo razzista. Ma quei presunti soprusi rischiano di diventare pregiudizi verso una società occidentale data per geneticamente razzista, in ogni sua manifestazione. Illuminante il recente articolo di Bret Stephens sul New York Times in cui si sottolinea come l’America abbia ‘eletto un presidente nero ormai tanto tempo fa’. E come di fatto, gli asio-americani, un tempo considerati minoranza, abbiano da tempo superato per livelli di reddito i cosiddetti “americani bianchi”. Insomma, si cerca un’integrazione verso ciò che è già perfettamente integrato, con il rischio di forzare la mano verso battaglie che qualcuno cavalca sapientemente, donando sette Oscar a un film la cui sostanza non è affatto evidente, con l’unico scopo di lanciare l’ennesimo, ridondante messaggio politico.

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