Cultura & Spettacolo

Benedetta la blasfema

di Adolfo Spezzaferro -


Benedetta è un’occasione persa: il film di Paul Verhoeven vorrebbe essere un’incursione tra l’erotico/eretico e il misticismo religioso, invece indugia nell’inutile ricerca dello scandalo. Oggi che abbiamo già visto di tutto, oltre ogni misura, mettere in scena l’amore lesbico tra due suore del ‘600, da solo di certo non basta per scuotere critica e pubblico. Al massimo scatena la sacrosanta indignazione dei credenti. Anzi, ci stupisce che il film non abbia il divieto ai minori di 18 anni, visto cosa viene mostrato: una blasfemia fastidiosa persino per chi non è credente.
La sensazione in effetti è che l’impianto storico, la messa in scena, il racconto delle vicende di Benedetta Carlini (realmente esistita) siano tutti pretesti per mostrare la storia sado-maso lesbo della protagonista con una novizia più giovane e più smaliziata. Al netto delle sequenze in questione, non resta né un film-denuncia della Chiesa della Controriforma, né una riflessione sul confine tra fede e superstizione, tra misticismo o mitomania, tra presunti miracoli e possibili manipolazioni della realtà.
Questa la trama. Benedetta (la molto brava ma poco credibile nel suo trucco e parrucco fuori epoca Virginie Efira) ha nove anni e una statuetta lignea della Madonna (donata dalla madre, che avrà un ruolo chiave nello sviluppo della storia). Un intervento divino l’ha salvata alla nascita e promessa alla Vergine Maria. Entrata bambina nel convento di Pescia, in Toscana, grazie alla ricca dote dei ricchi genitori, qui matura e sviluppa la sua personalità sempre in bilico tra verità e menzogna, tra capacità affabulatorie e visioni mistiche del Cristo. Tutto procede da copione finché la vita del convento delle teatine viene sconvolta dall’arrivo della selvaggia popolana Bartolomea (la brava Daphné Patakia), salvata dall’incesto di padre e fratelli grazie alla dote dei ricchi genitori di Benedetta. Sarà questa novizia, per una serie di vicende messa in cella con Benedetta, ad iniziare la protagonista ai piaceri della carne. Nel frattempo Benedetta dopo una visione del Cristo sulla croce riporterà le stimmate. Sulla cui natura divina dubiterà la badessa (la sempre ottima Charlotte Rampling). Ma i miracoli e le profezie sono proprio quello che ci vuole per il popolo di Pescia, mentre a Firenze imperversa e fa strage la peste. Fino a che Benedetta diventa badessa per meriti sul campo e l’ex badessa non la denuncerà al Nunzio, che farà torturare Bartolomea per strapparle una confessione e mandare Benedetta sul rogo. Ma le vie del Signore (oppure le notevoli capacità affabulatorie) cambieranno il corso degli eventi.
Adattamento del saggio di Judith C. Brown Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento, il film presenta tutti gli ingredienti tipici dei lavori del regista olandese, la violenza e il sesso, le “super donne” che si fanno beffa degli uomini (Basic Instinct, Black Book, Elle), la commistione sado-maso Eros e Thanatos. Il corpo femminile come feticcio, come scandalo nel senso biblico del termine. Il voyeurismo metacinematografico, qui elevato a enne perché dentro un convento, dove i guardoni non sono i maschi.
Il cinico calcolo di Benedetta, che plasma la realtà per il proprio tornaconto e che via via riconduce ogni suo atto alla ricerca del piacere della carne, va di pari passo con il suo afflato mistico, il suo amore per Cristo (declinato nella carne di Bartolomea). “Santa e puttana”, direbbero i critici militanti degli anni Sessanta. Ma oggi, nel 2023, il film fallisce nel suo obiettivo di scatenare anatemi o condanne, di fare notizia o di innescare dibattiti da cineforum.
L’anziano cineasta, che da sempre si professa ateo, mette tutto in scena senza alcun freno o remora e se ne compiace visibilmente. Ma decenni e decenni prima di lui, un inarrivabile Ken Russel, con I diavoli (1971) aveva già mostrato tutto. E molto meglio. Il cliché amore carnale-tortura, piacere-dolore, orgasmo liberatorio-rogo purificatorio è vecchio e qui puzza di stantio. Le ottime prove degli attori e le suggestive location (italiane, ovviamente) – menzione di demerito per alcune scelte cromatiche che rendono la fotografia posticcia – sono vanificate da una messa in scena a teorema, che alla fine non è né carne né pesce.
Quando si riaccendono le luci in sala infatti rimangono in mente soltanto le due suore nude. E non perché ci hanno colpito o turbato, ma per sovraesposizione.

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