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Attualità

La sicurezza come diritto primario

di Giuseppe Tiani -


Il diritto alla sicurezza come fondamento delle libertà

C’è una verità che in Italia si evita per pudore ideologico o convenienza. La sicurezza pubblica non è un’opzione politica, ma la condizione delle libertà. Non è un capitolo del dibattito pubblico, bensì il suo fondamento materiale. Le libertà di parola, di circolazione, di iniziativa economica e d’impresa o di protesta non esistono in astratto, abitano uno spazio pubblico che va presidiato affinché sia praticabile.

Quando quello spazio viene lacerato, il linguaggio dei diritti scivola nella retorica. Locke, con la nettezza del liberalismo originario, lo chiarisce senza ambiguità, lo Stato nasce per garantire protezione, prima ancora che per distribuire diritti. Bobbio, secoli dopo, sposta l’asse ma non cambia il senso, il problema non è proclamare i diritti, ma renderli fruibili, dotarli di istituzioni che funzionino, di responsabilità chiare, di autorità dotate di spirito di servizio. La sicurezza, dunque, non compete con le libertà, perché le rende esercitabili. So bene che la sicurezza non è il centro del sistema democratico, né può esserlo. Il cuore di una democrazia resta il pluralismo, l’equilibrio dei poteri, la tutela dei diritti individuali e collettivi, l’esercizio della libera impresa e del mercato.

Ma la sicurezza è un presupposto ineludibile, non il fine ultimo, bensì la soglia minima senza la quale ogni altro principio rischia di restare un arido formalismo. Ignorarlo non è segno di civiltà, ma di rimozione. Non parlo di una disputa teorica, ma della cronaca quotidiana. È ordine pubblico davanti agli stadi, dove la violenza organizzata tenta di riappropriarsi delle città e lo Stato è costretto a riconquistarle metro per metro. È violenza urbana e della degenerazione giovanile, dove un centro storico può trasformarsi in luogo d’agguato o di spaccio.

Conflitto sociale e ruolo delle forze dell’ordine

È conflitto sociale che sale di tono, con piazze legittime ma sempre più tese, mentre l’apparato è chiamato a garantire e bilanciare il diritto a manifestare e il diritto a non subire violenza. In mezzo ci sono i poliziotti, uomini e donne in uniforme che ogni giorno tengono la linea, presidio materiale della democrazia, ma sempre più spesso vengono dileggiati, quando non manipolati dal discorso pubblico e feriti nella realtà. Bersagli di insulti prima ancora che di pietre, usati come argomento polemico e poi lasciati soli se il confronto degenera. Una contraddizione che lentamente erode la credibilità delle istituzioni, non si può chiedere efficienza operativa per poi negarne il rispetto simbolico.

Per questo anche la gestione degli avvicendamenti ai vertici delle Forze di Polizia come delle Prefetture e Questure non è materia neutra o tecnica. È un segnale politico-istituzionale. La rotazione è fisiologica, ma in alcuni casi può essere percepita come instabilità, tale percezione impone riflessioni sulle dinamiche entro cui maturano le criticità. Se il cambio di un Questore appare repentino, opaco o esposto a letture esterne, il rischio che ne deriva è l’esposizione della tenuta gestionale dell’ordine pubblico a una dimensione di negoziabilità, ne consegue una catena di comando vulnerabile e un’autorevolezza confinata alla contingenza. È un lusso che un Paese geopoliticamente esposto e attraversato da tensioni e flussi migratori irregolari non può permettersi.

Continuità istituzionale e catena di comando

La sicurezza come diritto primario pretende istituzioni primarie, solide, riconoscibili, protette. Il Questore non è un figurante della comunicazione, ma l’autorità tecnico-operativa che tiene insieme prevenzione, investigazione e gestione della piazza nelle fasi del conflitto. La sua forza non è l’arbitrio, ma l’equilibrio tra responsabilità e protezione, in sintesi, nessun potere senza controllo, ma nessuna responsabilità senza sostegno. Le contrapposizioni dialettiche che ne sono derivate rientrano nella fisiologia del confronto, resta però imprescindibile la custodia del confine tra ordine e libertà. Un punto va chiarito, le libertà se prive della sicurezza pubblica, diventano privilegio del più forte, del più violento, del più organizzato, mentre l’ordine senza garanzie comprime i diritti. Tenere insieme questi poli non è lo slogan di un sindacalista, ma l’architettura pensata dai Costituenti.

Qui il campanello d’allarme suona forte per chi ha responsabilità politiche o di governo. Non basta chiedere sacrifici operativi se non si ricostruisce una cornice di fiducia, continuità e rispetto. La sicurezza costa, personale e mezzi, stabilità del comando, tutela economica e professionale dei poliziotti, formazione per una cultura del servizio adeguata alle mutazioni della società multiculturale, ma è un costo infinitamente minore di quello dell’insicurezza o della violenza normalizzata. In definitiva cito i grandi pensatori perché all’orizzonte non si scorge nulla di nuovo, mentre Locke e Bobbio parlano ancora al presente, prima della retorica dei diritti viene la grammatica delle garanzie depurate dall’ambiguità. Chi con supponenza da salotto banalizza o manipola la questione sicurezza, non ha ben chiaro che la sicurezza pubblica precede l’esercizio delle nostre libertà.

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