Il dollaro rischia grosso, i dazi potrebbero costare all’America il ruolo globale della sua valuta. E, per Washington, questo sì che potrebbe essere un grave, gravissimo, problema. O, se preferite, un clamoroso assist alla Cina che, ormai da anni, lavora per fare dello yuan e del renminbi la moneta di scambio internazionale. Piero Cipollone, economista italiano che siede nel consiglio esecutivo della Bce, ha suonato l’allarme al convegno della Banca dei regolamenti internazionali, dal Fmi, dalla Bank of England e dalla stessa banca centrale europea: “Se le implicazioni a lungo termine di dazi doganali più elevati si concretizzassero, in particolare sotto forma di maggiore inflazione, rallentamento della crescita e aumento del debito statunitense, ciò potrebbe minare la fiducia nel ruolo dominante del dollaro statunitense nel commercio e nella finanza internazionale”. Certe cose, però, trascendono l’economia strettamente intesa e Cipollone lo sa: “Se a ciò si aggiunge un ulteriore disimpegno dagli affari geopolitici globali e dalle alleanze militari, col tempo questo potrebbe indebolire il privilegio esorbitante di cui godono gli Stati Uniti, con conseguente aumento dei tassi di interesse a livello nazionale”. Uno scenario che si sta verificando davanti ai nostri occhi, accelerato dalla guerra e dalla zoppìa americana che, a livello globale, ora soffre il protagonismo cinese: “Con l’affermarsi di sistemi di pagamento alternativi, le valute regionali potrebbero iniziare a emergere come riserve all’interno dei rispettivi blocchi. Ciò potrebbe essere accompagnato dall’ascesa di sistemi di pagamento concorrenti, frammentando ulteriormente i flussi finanziari globali e il commercio internazionale”. Addio Swift, addio leve politiche e commerciali che blindano il dollaro dando agli States una primazia finora inscalfibile. E sarebbe un cambio di sicuro non indolore: “Tali cambiamenti aumenterebbero i costi di transazione ed eroderebbero la capacità dei paesi di condividere i rischi su scala globale, rendendo l’economia mondiale più frammentata e meno efficiente”. Insomma, il grande rischio legato alla messa in discussione della globalizzazione così come la conosciamo riguarda la fine del dollaro come moneta di scambio globale. E di ciò gli Stati Uniti, come è ovvio che sia, sono sempre stati gelosi a tal punto da scatenare una vera e propria guerra, nemmeno troppo sotterranea, all’Europa che aveva osato di scalfire il primato dei bigliettoni quando lanciò la moneta unica dell’euro. Ma il dollaro, che non è mai stato così debole come negli ultimi anni, ha un’arma che gli altri non hanno. Ossia le criptovalute. Più di un asso nella manica, un orizzonte tutto nuovo in cui gli Stati Uniti sono pronti a blindare il loro primato. Proprio mentre la Cina annuncia, per l’ennesima volta, la volontà di voler raggiungere l’autosufficienza digitale. La vicenda tariffe continua a trascinarsi tra scontri diplomatici ed economici tra Usa e Cina. Trump apre a uno “sconto” su auto e ricambi, per non affossare il settore. Pechino continua a puntare il dito contro l’Occidente e torna sul caso Boeing affermando che se l’affare è andato a monte, al punto da costringere l’azienda americana a tentare di tornare sul mercato alla ricerca di nuovi acquirenti per i suoi aerei, è stata tutta colpa dei dazi. Per il Segretario al Commercio Usa, Scott Bessent, tocca al Dragone fare il primo passo per “ridimensionare” lo scontro. E mentre Wall Street resta col fiato sospeso in attesa dei conti di Big Tech, si consuma il bisticcio tra la Casa Bianca e Amazon. Dopo averci mandato la fidanzata e le di lei amiche, Jeff Bezos spedisce nuovi satelliti mentre la sua creatura s’è decisa a mostrare in chiaro, sulla sua piattaforma, i costi dei dazi. C’è da capirlo: mica vuol assumere su di sé o su Amazon la “colpa” degli aumenti che toccheranno (anche) i consumatori americani. Ma a Washington l’iniziativa di Bezos, svelata da uno scoop di Punchbowl News, è stata accolta come “un atto politico” e naturalmente interpretato come “ostile”. Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca, ha velenosamente sibilato di non sentirsi troppo meravigliata da notizie del genere: “Non mi sorprende visto che hanno siglato una partnership con un braccio della propaganda cinese”. Il Canada, nel frattempo, ha votato: ha vinto, ma nemmeno di troppo, Mark Carney che i media (italiani) già hanno ribattezzato come il “Mario Draghi” del Paese della foglia d’acero. Le analisi si sprecano ma Politico riferisce che, oltre allo scontro tra Ottawa e gli Usa, ha pesato pure la voglia di normalità in una nazione già dilaniata dalle scelte, non sempre condivise e talora divisive (come la sospensione dei conti bancari per i camionisti ai tempi del Convoglio della Libertà), assunte dall’ex enfant prodige liberal Justin Trudeau.