L’economia del sollievo: i crying café
Nelle grandi città, dove la solitudine si nasconde dietro social e dispositivi elettronici, il bisogno di piangere trova un luogo culturalmente inaspettato: un bar. Si chiamano crying café, e sono nati in Giappone, ma si stanno evolvendo e “migliorando” in tutto il mondo. Di base il modello è semplice: nel 2020 è nato a Tokyo un locale, Bar Mori Ouchi, che accoglie solo persone “negative” – è presente all’ingresso una insegna che riporta: “Negative people only” -. All’interno ci si siede, si ordina e si piange. Non dimentichiamo, d’altronde, che il Giappone è la patria del “karoshi” – la morte per troppo lavoro – e della cortesia come forma d’arte per eccellenza. La tristezza però, lì, è una faccenda privata quasi da non condividere e manifestare in pubblico.
Il pianto è davvero un tabu?
Piangere davanti a qualcuno è quasi uno scandalo di cui vergognarsi. E allora, quando si sente di non poter più contenere la tensione, si cerca sempre un luogo “sicuro” in cui la fragilità sia tollerata, anzi, prevista autorizzata e rispettata. Si paga per restare da soli, ma non completamente. Paghi per la possibilità di lasciarti andare alle mozioni che a volte ci soffocano. Ma serve davvero un bar per piangere? Il tabu del pianto è ancora ben radicato nella cultura umana e non è possibile sempre esternare il proprio dolore. Sui social non sempre è possibile a meno che, il dolore, non abbia una buona luce e un filtro tenue. Forse è possibile nel bagno di casa, dove il tempo e lo spazio ci appartengono e ci sentiamo al sicuro. Così il crying café diviene non più un’idea strana, ma una necessità autorizzata come fosse un “diritto al crollo emotivo personale”. Il marketing della malinconia, o come cantava Masini della “Malinconoia” è iniziato. Naturalmente, ogni gesto autentico finisce presto per essere confezionato, servito e venduto; nessun buonismo, alla fine si tratta di commercio.
Nulla viene lasciato al caso
Oggi i crying café si condividono sui social, tra tazze minimaliste, playlist curate e una estetica che sembra uscita da una rivista di design nordico attento e ricercato. Nulla viene lasciato al caso. Eppure, nonostante il rischio di mercificazione, l’idea conserva una sua forza contraddittoria: riabilitare la tristezza in un mondo ossessionato dalla perfezione. Nel crying café non devi spiegare niente, non devi intrattenere nessuno: ti devi sfogare. Puoi piangere in silenzio, con discrezione. Oppure no. Piangere diventa così un atto di resilienza. A Milano si parla di un gruppo di psicologi che vorrebbe aprire un locale simile, dove pianto e parola possano convivere. In Francia, alcuni festival hanno già sperimentato le “stanze del sollievo” per spettatori sopraffatti dalle lacrime. Il pianto, insomma, torna a essere linguaggio condiviso e non temuto. Non si piange solo quando si è tristi. E Le lacrime, come diceva lo scrittore giapponese Haruki Murakami, “sono la pioggia dell’anima che lava via la polvere accumulata dentro”. Forse è proprio così: i crying café sono gli ombrelli contemporanei del mondo moderno. Ma poi, alla fine, perché dobbiamo pagare per piangere? Perché serve un menu – a pagamento -, un tavolino e un servizio messo a disposizione dal bar. Viviamo in periodo complesso in cui le persone trasformano ogni bisogno in un servizio, ogni disagio in opportunità di business. Forse il futuro del benessere passa anche da qui: non solo palestre, spa e aperitivi, ma spazi dove l’anima possa abbandonarsi alle emozioni reali. Un luogo dove non si finge, dove non serve sorridere per forza, dove piangere è normale quanto sorseggiare un caffè.
Torna alle notizie in home