GRAVI INDIZI DI REATO – Antonella Di Veroli: il mistero dell’armadio 31 anni dopo
Roma, aprile 1994. Antonella Di Veroli ha 47 anni, è una consulente del lavoro stimata, vive da sola in un elegante appartamento nel quartiere Talenti. È una donna riservata, dedita al suo mestiere, lontana dai riflettori. Il 7 aprile è l’ultima volta che qualcuno la vede viva. Poi, il nulla.
Passano tre giorni, la sorella Carla, preoccupata per il silenzio insolito, va a cercarla insieme a un’amica e a un ex collega, Umberto Nardinocchi. Forzano l’ingresso. L’interno è ordinato, nessun segno di effrazione. Ma in camera da letto, chiuso in un armadio ermeticamente sigillato con del silicone, giace il corpo senza vita di Antonella.
Ha un sacchetto di plastica stretto sul volto, due colpi d’arma da fuoco alla testa, ma la causa della morte è il soffocamento. L’analisi forense parla chiaro: viene prima tramortita con due colpi di pistola, poi soffocata. Non ci sono graffi o ferite da difesa. L’assassino è calmo, organizzato, sicuro. Niente è fuori posto. Non è un delitto passionale né una rapina finita male.
Le indagini si orientano su due uomini: l’ex socio, Nardinocchi, e l’ex compagno, Vittorio Biffani. Il primo viene scagionato rapidamente. Il secondo, invece, è al centro dell’attenzione degli inquirenti. Antonella Di Veroli, qualche tempo prima, gli aveva prestato una somma consistente: 42 milioni di lire, mai restituiti. Tra loro i rapporti si erano incrinati, ci sono state discussioni. Biffani viene arrestato e rinviato a giudizio.
Nel 1995 si apre il processo, ma gli elementi contro di lui sono incerti: le prove balistiche sono deboli, l’impronta sull’armadio non gli appartiene. Anche il test del guanto di paraffina, potenzialmente decisivo, risulta compromesso. Dopo un lungo iter giudiziario, viene assolto. Muore pochi mesi dopo e il caso di Antonella rimane senza un colpevole. Nel frattempo emergono gravi negligenze investigative: alcuni reperti spariscono, come il fondo dell’armadio con tracce di sangue, il sacchetto sulla testa della vittima non viene conservato. Mancano riscontri fondamentali, ma la famiglia non si arrende.
Qualche settimana fa, a distanza di 31 anni, la Procura di Roma ha deciso di riaprire l’inchiesta, il nucleo investigativo riprende in mano gli atti: vengono riesaminati bossoli, impronte, materiali d’archivio. Le nuove tecnologie offrono più possibilità. Spunta anche un’altra pista: del lavoro. La sorella racconta che Antonella avrebbe rifiutato di convalidare un bilancio truccato. Un gesto di integrità che, forse, le è costato la vita. C’è anche una testimonianza rimasta sullo sfondo: un vicino racconta di aver visto una figura sospetta la sera del delitto. Il nome di Antonella Di Veroli torna d’attualità. La famiglia spera che la verità venga finalmente a galla. Dopo decenni di attesa, la giustizia prova a ripartire da dove tutto si è interrotto. E il mistero dell’armadio potrebbe finalmente trovare una risposta.
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