Cultura & Spettacolo

Hugh: Ho capito la paura e i taboo di chi soffre dentro

di Nicola Santini -

copyright EVA RINALDI


Affascinante, talentuoso, credibile nei ruoli d’azione ma anche in quelli romantici, Hugh Jackman è diventato in brevissimo tempo uno degli attori più amati e conosciuti in tutto il mondo. Dal prossimo 9 febbraio sbarcherà in tutti i cinema italiani con il film The Son, secondo lungometraggio di Florian Zeller, tratto dall’opera teatrale Le Fils del 2018 scritta dallo stesso autore, che gli ha già fatto guadagnare una nomination ai Golden Globe come miglior attore in un film drammatico. L’opera, presentata in Concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, vede Jackman nelle vesti di Peter, un padre vulnerabile alle prese con un figlio che soffre di depressione.
Cosa ti ha spinto ad affrontare questa nuova avventura cinematografica?
Avevo letto la sceneggiatura e visto The Father (prima opera del regista Florian Zeller, ndr). Ho capito immediatamente che quella parte fosse giusta per me in questo momento della mia vita. La sensazione che mi ha pervaso è stata davvero intensa. Ho scritto a Zeller dicendogli che mi sarebbe piaciuto tanto interpretare quel personaggio. Ho praticamente voluto questa parte.
Ti sei messo alla prova interpretando un ruolo molto intenso…
In The Son interpreto un padre, mentre nei panni del mio c’è Anthony Hopkins, un attore che ammiro e al quale mi ispiro, che è un uomo che ci ricorda sempre quanto tutti noi, in fin dei conti, siamo ancora figli e figlie di qualcuno. Inevitabilmente, siamo sempre condizionati dal nostro passato così come dal nostro presente.
Com’è stato l’incontro con Anthony Hopkins?
Ero al settimo cielo ma, soprattutto, molto emozionato e un po’ nervoso. E’ stato davvero un privilegio per me poter lavorare con lui. Lui è un titano, è pieno di vita, una persona bellissima.
Come ha influito questa esperienza cinematografica sul tuo modo di essere padre nella vita di tutti i giorni?
Per molti tantissimi anni, come genitore, il mio compito è stato quello di apparire forte e affidabile e di non preoccuparmi mai: l’obiettivo era quello di non pesare sui miei figli.
C’è qualcosa di te che senti cambiato?
Sicuramente dopo questo film ho cambiato il mio approccio: condivido molto di più le mie vulnerabilità con i miei figli di 17 e 22 anni e vedo un senso di sollievo sui loro volti quando lo faccio.
E’ difficile essere genitori?
Lo è. Avrei davvero apprezzato se anni fa qualcuno mi avesse detto che non sempre avrei preso la decisione giusta. Avrei capito molte cose in più e forse risparmiato qualche errore. Ma va bene così.
Hai imparato qualcosa di più sul tuo ruolo di padre grazie a questo film?
Quello del genitore è un ruolo che in qualche modo ci mette di fronte alla nostra vulnerabilità. Questa storia sicuramente ha fatto maturare ulteriormente questa consapevolezza.
Quale messaggio ti piacerebbe arrivasse al pubblico?
Spero che questo film porti a un dibattito che ci faccia capire che siamo tutti sulla stessa barca, non siamo soli. C’è una battuta in The Son molto significativa: “L’amore non è sufficiente”. Tutte le persone che fanno parte di questo film amano tantissimo ma si sentono incapaci.
Si sente molto anche il senso del gruppo…
Tutti noi abbiamo bisogno di una comunità, di persone che ci influenzino e ci guidino.
The son mostra anche quanto possiamo essere isolati quando parliamo di malattie mentali…
C’è vergogna, c’è senso di colpa, c’è un intenso desiderio di aggiustare le cose. Ma rendersi conto della nostra impotenza, ammetterla in un certo senso, può portare alla possibilità di essere davvero in grado di comprendere ed empatizzare con le persone intorno a noi, di camminare nei loro panni e di essere veramente onesti.
In una scena del film improvvisi dei passi di danza: è stata una tua idea?
E’ stata una scena di cui abbiamo parlato molto con il regista e Vanessa Kirby.
Come hai affrontato il discorso in casa?
Quando ho raccontato a casa che avrei dovuto ballare mia figlia mi ha risposto: “Non ti preoccupare” (ride, ndr).

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