Attualità

I cattivi maestri del patriarcato vogliono educare

di Rita Cavallaro -


Io il patriarcato non l’ho vissuto. Sono venuta al mondo nel luogo in cui è nata la repubblica delle donne, in quella polis della Magna Grecia, Locri Epizefiri, alla cui fondazione parteciparono attivamente un gruppo di donne che poi contribuirono alla politica e alla società. E sono cresciuta in una famiglia in cui “comandava” mia nonna, mia madre, mia zia. Forse per questo non lo capisco, però capisco i “figli sani” di genitori assenti, che hanno delegato l’educazione ai social e neanche ci parlano più con i figli.

Genitori che per affievolire il senso di colpa di quell’assenza non sanno dire più un ”no”, sia sul piano comportamentale che su quello materiale. E che non prendono provvedimenti di fronte ad atteggiamenti sbagliati, anzi li giustificano al punto da instillare nella mente dei figli la convinzione che tutto è lecito e la punizione non è contemplata. Quando quei figli sani si trovano davanti a qualcuno che spiattella loro in faccia un “no”, non sono in grado di accettarlo, da chiunque arrivi. Dalla scuola, dove ormai le aggressioni ai professori sono all’ordine del giorno. Dal datore di lavoro, ritenuto un inetto che non può dare ordini.

Tanto più da una donna, l’oggetto di una relazione che sopperisce al senso di abbandono prodotto dall’assenza emotiva dei genitori. Un possesso che non è legato all’angelo del focolare, tipico del patriarcato, ma a una società consumistica che ha abituato i bambini a rompere i giocattoli, tanto ne compreranno altri. E che crescendo vedono uomini rompere ”giocattoli” senza severe conseguenze, con un senso di impunità alimentato dalla mancanza della certezza della pena.

Allora più che la lotta al patriarcato e l’imbarazzante “mea culpa” social del genere maschile, che si sta prendendo la responsabilità di massa di un singolo assassino, la strada da percorrere dovrebbe divergere verso il ripristino della funzione primaria educativa della famiglia. E la politica dovrebbe appigliarsi meno a demagogici fantasmi del passato. Per passare ai fatti, perché lo Stato deve prendere provvedimenti seri. Deve dare risposte, non certo spiegazioni, visto che per queste ultime basta pagare poche centinaia di euro a psicologi e sociologi, risparmiando così decine di migliaia di euro di stipendi dei parlamentari. D’altronde le analisi profonde delle motivazioni sottese a un femminicidio non fermano la mano degli assassini, come dimostrano i numeri dei delitti commessi dall’inizio dell’anno.

Centocinque donne ammazzate nel 2023, un lunga lista di nomi, molti dei quali dimenticati da chi oggi leva i vessilli di una battaglia a favor di telecamere, perché la storia di Giulia è terribile e il suo omicidio così terribilmente mediatico, per tutto il contesto. Perché Giulia Cecchettin e il suo assassino Filippo Turetta erano due giovanissimi, cresciuti in famiglie normali del ricco nordest, non in case popolari degradate di Caivano, che studiavano ingegneria insieme e che incarnavano nell’immaginario collettivo i figli che tutti i genitori vorrebbero avere.

Gli stessi genitori di Filippo non si erano accorti dei segnali di instabilità emotiva di quel figlio, che hanno definito “un ragazzo d’oro” fino a quando la realtà, indifendibile, non gli si è materializzata con la forza di un pugno in faccia. E papà Nicola Turetta la botta l’ha presa così forte da confessare velatamente che forse avrebbe preferito che quel figlio lo avessero trovato morto. Un auspicio che supera la tragedia stessa, inconcepibile da provare per un genitore, ma che si pone in controtendenza con il patriarcato ed è invece lo specchio dell’incapacità di un uomo di affrontare le responsabilità, tramandata in famiglia. Perché la morte sarebbe stata più sopportabile rispetto a dover guardare negli occhi un figlio assassino e vivere il resto della vita con i sensi di colpa e con il fallimento di un progetto familiare.

Lo stesso rifiuto della mamma di un altro bravo ragazzo, quell’Alessandro Impagnatiello che il 27 maggio scorso ha ammazzato la sua compagna Giulia Tramontano, incinta di sette mesi. “Alessandro è un mostro”, aveva detto tra le lacrime la madre Sabrina Paulis. Invece oggi Elena Cecchettin nega l’esistenza del male e dice che Filippo Turetta non è un mostro, ma “un figlio sano della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro”. Quale assist migliore per la sinistra, che ormai da tempo cavalca il fantasma del patriarcato, con la segretaria del Pd Elly Schlein che chiede una legge “che introduca l’educazione al rispetto e all’affettività in tutte le scuole d’Italia”. Eccola la politica che si vuole sostituire alle famiglie nell’educazione. E che propone nuove leggi quando una legge c’è ed è quel Codice rosso che il governo sta potenziando per velocizzare le misure preventive e cautelari.


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