Politica

Il coraggio e i pericoli del premier divenuto re

di Redazione -


di ANGELO LUCARELLA

Lo scorso 3 novembre il Consiglio dei Ministri ha approvato la proposta di legge costituzionale con cui si vorrebbe introdurre il cosiddetto premierato. Si tratta dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri che il Parlamento esaminerà nel lungo iter previsto dall’art. 139 (due deliberazioni successive con intervallo di tre mesi da parte di Camera e Senato).
La riforma, sostanzialmente, poggia su tre binari d’azione: voto diretto dei cittadini di chi si vorrà come Presidente del Consiglio dei Ministri; costituzionalizzazione di una legge elettorale al 55% di premio su scala nazionale per entrambe le Camere; nuovo incarico di Governo a un parlamentare della maggioranza se il Premier eletto non ha più la fiducia dalle Camere.
Il fatto che il Governo in carica proponga una riforma costituzionale è di per sé un fatto legittimo e che manifesta non solo coraggio politico e vitalità, ma anche continuità rispetto a quanto detto ai cittadini nell’ultima campagna elettorale.


Il fatto per cui, invece, il Governo proponga una elezione diretta del Premier per motivare che quando si va alle elezioni poi i cittadini non trovano seduto a Palazzo Chigi il leader che ha preso più voti è discutibile. Lo dimostra Giorgia Meloni, lo hanno dimostrato Silvio Berlusconi e Romano Prodi.
È vero, non c’è una regola scritta in Costituzione che ciò avvenga con certezza, ma è nella logica dell’impianto costituzionale che è stato partorito nel dopoguerra. E tale logica voleva una capacità dei partiti di non farsi leaderistizzare in maniera sfrenata.
D’altronde come avremmo potuto avere personaggi illustri tipo Aldo Moro se ci fosse stato all’epoca il premierato?
Ma il premierato va considerato per quello che è: un sistema alternativo a quello esistente ed ad altri in giro per il mondo.
Essendo, quindi, un sistema alternativo, esso “non può sedere” in una Costituzione pensata per un sistema a “confluizione”, ovverosia prima i partiti raccolgono il consenso e poi si formano le maggioranze. Non si tratta di inciuci, ma di sistema costituzionale che ha i suoi equilibri di senso.
Il premierato pensato dal Governo invertirebbe tutto ciò implicando un premio di maggioranza fisso al 55% nelle rispettive Camere così, subdolamente, inserendo un sistema maggioritarista sconosciuto alla nostra tradizione politica (salvo una quota nel Rosatellum e nel vecchio Mattarellum).


Si tratta di un premieratismo che supererebbe anche l’art. 57, il quale prevede come il Senato sia eletto a base regionale. Ma così non è perché quell’art. 57, non menzionato dalla bozza di riforma costituzionale, comporta due cose: che seppure il Senato continuerà ad essere eletto su base regionale, il premio di maggioranza calcolato su base nazionale potrebbe azzerare l’esito del voto vincente (ad esempio con risultato in una direzione opposta) per la regione di riferimento; che se la maggior parte delle regioni non hanno votato la coalizione di cui il premier è portatore principale venendo, invece, eletto per effetto del suffragio universale e diretto, allora ci si troverebbe nell’assurda situazione di ribaltare la dignità del voto regionale a favore del premio nazionale.
Ovvio che così il tutto non può funzionare. Saremmo difronte allo sfalsamento del suffragio per effetto della disarmonia sopravvenuta delle norme presenti in Costituzione.
Come se non bastasse, poi, il fatto di prevedere l’ipotesi di conferire un secondo mandato ad un parlamentare della maggioranza, in caso il premier non avesse più la fiducia delle Camere, porterebbe ad un fatto clamoroso: che la riforma premieratista violerebbe la sua stessa logica e ragione di esistenza dal momento che un Presidente del Consiglio non eletto dai cittadini finirebbe per violare la fiducia di cui è intriso il mandato elettorale.
Per combattere l’idea dei governi tecnici, si rischia di aprire la stagione dei governi subdoli.


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