Editoriale

Il green boss nella zona rossa 

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


La spiegazione è molto semplice, come sempre, sul piano formale. I carabinieri stavano intercettando i picciotti. Per cui vaffa al Covid, che è roba per gente comune, e giustamente priorità alla cattura del superboss. Ragione per cui se nel paesello siciliano di Ignazieddu, come si faceva chiamare il capo della mafia Matteo Messina Denaro dai fedelissimi, circolavano decine di pizzini (li pubblichiamo oggi) e decine di persone parlavano di lui, c’erano strani assembramenti a cui lo Stato, per ragioni di Stato, non poteva opporsi, a nessuno degli ignari abitanti (si fa per dire) sia venuto in mente di indignarsi per queste riunioni, per chi viveva come se l’Italia non fosse piombata nel periodo più cupo degli ultimi decenni, relegata in casa, senza modo di muoversi.
Quel che ci resta, dunque, della zona (lupara) bianca in cui il boss viveva sono i suoi pizzini e le frasi che U’ Siccu pronunciava ai suoi uomini di mafia e che questi riportavano all’esterno, senza mai citare il nome, e che Rita Cavallaro racconta sul numero de L’identità di oggi.
Biglietti e telefonate che ci svelano molti aspetti degli ultimi mesi di latitanza di Messina Denaro. Che era ancora il capo. Che decideva i ruoli dentro i mandamenti di Cosa nostra, che faceva affari con amici (a volte anche ignari) che gestiva, quindi deteneva, ancora potere. E il lento avvicinamento degli investigatori, di cui lui prende coscienza, come si capisce dalle frasi che pronuncia, nel tempo. Fino ad arrivare a sentire un cerchio che si stringe e che, forse, qualcuno fuori dal suo clan ma dentro la stessa mafia, voleva portare all’estrema conseguenza di una necessaria successione. Proprio quella che oggi tutti negano. Da Meloni in giù. Ma su cui servirà tempo per avere un giudizio realistico.

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