Attualità

IN GIUSTIZIA – Intercettazioni: chi difende i difensori? Il caso Pifferi

di Francesco Da Riva Grechi -


Il caso Pifferi ha portato sotto i riflettori una pericolosa malpractice di certe procure: l’assimilazione di un difensore ad un agevolatore o ad un concorrente nella commissione del reato. Il campo più pericoloso nel quale questo fenomeno si riscontra non è tuttavia quello mediatico bensì quello nel quale la sacralità del diritto di difesa si esercita concretamente nella segretezza delle stanze dei difensori che conferiscono con i propri assistiti, inconsapevolmente “denudati” e posti sotto intercettazione, oggi praticamente senza limite. Si discute, al riguardo, in commissione giustizia al Senato, il ddl n. 932 recante “Modifiche alla disciplina delle intercettazioni tra l’indagato e il proprio difensore, nonché in materia di proroga delle operazioni”, di iniziativa del senatore Zanettin, che reca modifiche agli articoli 103 e 267 del codice di procedura penale “al fine di definire in maniera più puntuale il perimetro di applicazione delle intercettazioni del difensore del soggetto indagato”.
Nello specifico, le modifiche all’articolo 103 del codice di procedura penale dispongono il divieto del sequestro e del controllo delle comunicazioni tra l’indagato e il suo difensore, salvo nei casi in cui l’autorità giudiziaria ritenga, fondatamente, che si tratti di reato, ovviamente a carico del legale. La seconda modifica, aggiuntiva, prevede l’immediata interruzione delle operazioni di intercettazioni laddove emerga che le comunicazioni rientrano tra quelle espressamente vietate. È previsto, inoltre, il divieto delle comunicazioni e delle conversazioni tra difensore e indagato comunque intercettate, l’immediata distruzione e le relative modalità. Per quanto riguarda l’art. 267 del codice di procedura penale, allo stato della discussione in commissione, ne sarebbe modificato il comma 3, che oggi recita: “Il decreto del pubblico ministero che dispone l’intercettazione indica le modalità e la durata delle operazioni. Tale durata non pu superare i quindici giorni, ma pu essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di quindici giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1” (sempre dell’art. 267 c.p.p.). Nella prassi ovviamente i periodi di quindici giorni possono succedersi all’infinito. A questo cerca di porre rimedio la relatrice del ddl, la Senatrice ed ex-ministra Erika Stefani, che è intervenuta sull’atto con un emendamento del seguente tenore: “Le intercettazioni non possono avere una durata complessiva superiore a quarantacinque giorni, salvo che nei procedimenti in materia di criminalità organizzata oppure quando l’assoluta indispensabilità delle operazioni per una durata superiore sia giustificata dall’emergere di elementi specifici e concreti, che devono essere oggetto di espressa motivazione”. Tale modifica, indispensabile per le ragioni dell’avvocatura, sarebbe stata discussa lo scorso 26 marzo ma l’opposizione (o la magistratura) hanno fermato tutto.
Chi scrive ritiene che la ragione del blocco sia, ancora una volta, l’esclusione dell’impiego delle intercettazioni, anche con il captatore informatico (Trojan Horse), nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione e dunque, pretestuosamente, contro la corruzione, ricompattando, quindi, il fronte comune tra certa opposizione in parlamento e certa magistratura inquirente.


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