Economia

La guerra dei tassi

di Giovanni Vasso -


Le differenze tra Oriente e Occidente si riflettono anche nelle scelte di politica monetaria. E mentre l’Europa e gli Stati Uniti, confortati dalle previsioni e dalle indicazioni degli enti sovranazionali tra cui Ocse e Fmi, proseguono a rinvigorire il costo del denaro, la Cina taglia tutto. E lo fa per dare nuova linfa alle sue attività industriali ed economiche che, nel corso degli ultimi mesi, sembravano essere incappate in rallentamenti e frenate. Evidentemente ritenute troppo pericolose dal governo di Pechino.

Così, la Banca popolare di Cina (Pboc) ha deciso di portare i tassi sulle operazioni contro termine a sette giorni all’1,9% rispetto al 2% precedente. Non è un gran ribasso. Ma rappresenta un segnale politico ed economico preciso. Perché la scelta degli economisti cinesi comporterà una maxi iniezione di liquidità valutata in ben 2 miliardi di yuan. Che, al cambio con la valuta americana, rappresentano poco meno di 280 milioni di dollari. Ma i fari sono puntati alle decisioni che in queste ore potranno essere prese. Infatti, gli esperti ritengono che la Pboc potrebbero operare una riduzione di simile entità del tasso Mlf, attualmente al 2,75%  Un taglio simile, inoltre, è previsto anche per il tasso di riferimento a un anno (Lpr) quando la Banca annuncerà la sua decisione in merito il 20 giugno. Il tasso è attualmente del 3,65%.

Intanto, anche la Turchia potrebbe mettere mano ai tassi. Rialzandoli, contrariamente alla sua decennale politica monetaria. L’inflazione, a Istanbul, è sempre stata alta. E, ciclicamente, ha raggiunto spesso e volentieri la doppia cifra. In queste settimane cresce, su base annua, al 40%. Gli osservatori indipendenti, però, parlano di aumenti nell’ordine del 100%. Ora, però, Erdogan vuole intervenire. Ed è stato lo stesso presidente turco a spiegare l’intenzione di intervenire. “Abbiamo concordato che il ministro delle Finanze prenda rapidamente le misure necessarie con la banca centrale”, ha dichiarato Erdogan ai giornalisti turchi, dicendosi “determinato a far scendere l’inflazione a una cifra”. Una bella sfida.

Negli Stati Uniti, invece, gli economisti ritengono che giugno sarà un mese di tregua nell’offensiva rialzista della Fed di Powell. Ma c’è poco da stare allegri, perché dopo la pausa si riprenderà a far salire il costo del denaro. In America, l’aumento dei tassi ha causato il tracollo del sistema bancario regionale (leggi Silicon Valley Bank) che si sono ritrovate in pancia titoli del tesoro divenuti, con le nuove condizioni, poco più che carta straccia. In Italia, intanto, Confindustria alza la voce. E denuncia: “La stretta monetaria, con il più ripido e consistente rialzo dei tassi della Bce mai osservato nella sua storia, incide anche sulla dinamica del credito”. Il vicepresidente Emanuele Orsini ha spiegato: “Il costo dei finanziamenti bancari è in netta risalita. Il tasso pagato per i prestiti dalle imprese è balzato a 4,30% a marzo, oltre il triplo del livello di fine 2021 (1,18%). Siamo di fronte ad una forte riduzione della domanda e le condizioni di accesso al credito per le imprese sono decisamente più restrittive”. Per il vicepresidente di Confindustria, inoltre: “Si tratta di una delle principali, se non la principale, preoccupazione per le imprese in questo momento ed è quindi fondamentale mantenere un rapporto di fiducia tra mondo bancario e sistema imprenditoriale. Occorre prestare attenzione a che non si determini una frenata eccessiva dei consumi e degli investimenti che le imprese sono chiamate a mettere in campo per le sfide imposte dalla transizione ambientale e digitale”. Insomma, in Europa siamo al credit crunch. Ma non ditelo ai falchi della Bce. Per loro c’è ancora tanta strada da fare.


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