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Attualità

La maledizione torna sul Toro Don Robella lotta

di Ivano Tolettini -


Capelli lunghi e il sorriso che basta a scaldare uno stadio. Don Riccardo Robella è così: un prete granata, uno di quelli che non predica dal pulpito ma tra la gente, negli spogliatoi, sugli spalti, nei bar dove il Toro è più di una squadra, è un modo di stare al mondo. Ora quel sorriso è fermo, sospeso in una corsia del Cto di Torino, dove il sacerdote lotta tra la vita e la morte dopo un incidente d’auto che ha scosso l’intero popolo granata. È successo giovedì, di ritorno da Mondovì, dove aveva trascorso la serata con i tifosi del Toro Club. Il dramma sull’autostrada A6, vicino al casello di Carmagnola, quando un’Audi A8 lanciata a velocità folle ha travolto la Dacia Duster su cui viaggiava. L’auto si è ribaltata più volte prima di schiantarsi contro il guardrail. Don Robella è stato estratto privo di conoscenza e trasportato in elisoccorso all’ospedale: traumi al cranio, al torace, alle vertebre.

La prognosi è riservata

L’altro passeggero è illeso. Intanto, in città, l’eco dell’incidente si è diffusa come un lampo. Nei bar del Filadelfia, sui social, davanti alla Basilica di Superga, i messaggi si rincorrono: “Forza don, il Toro ha bisogno di te”. Perché Robella, 53 anni, non è un sacerdote qualunque. È l’erede spirituale di don Aldo Rabino, lo storico cappellano del Torino scomparso nel 2015. Quando il club cercava un successore, lui accettò con la naturalezza dei predestinati: “Mio padre mi ha trasmesso la fede granata – disse – non potevo dire di no”. E da allora non ha più lasciato il suo posto accanto ai giocatori, in campo e fuori. Le sue omelie a Superga, ogni 4 maggio, sono diventate leggendari momenti di memoria collettiva. Nel 2019, impossibilitato a salire sulla collina per la pioggia, spostò la messa in Duomo. Davanti al presidente Cairo e agli ex campioni del Toro, prese un vaso e lo frantumò: “Il vaso non potrà più tornare com’era, ma i cocci, nelle mani di ciascuno di noi, possono ancora raccontare la sua storia”. Era la metafora perfetta per una squadra che dal 1949 convive con l’ombra di Superga, e con quella misteriosa, inesorabile maledizione che ogni tanto torna a bussare. C’è qualcosa di simbolico, e insieme di crudele, in ciò che è accaduto alla vigilia del derby.

I destini interrotti

L’incidente del cappellano granata sembra un’altra scheggia di quella lunga serie di destini interrotti che attraversano la storia del Torino: il Grande Torino perduto tra le nuvole, Gigi Meroni travolto in strada nel 1967, e ora don Robella, colpito sulla via del ritorno da un incontro con i suoi tifosi. Come se ogni generazione granata dovesse misurarsi, prima o poi, con la prova del dolore. La squadra di Baroni prega per lui. Lo fa anche Urbano Cairo, che pochi giorni fa aveva partecipato con Robella alla cerimonia al Cimitero Monumentale per ricordare i caduti di Superga. Durante quella celebrazione, il cappellano aveva pronunciato parole che oggi suonano come un presagio: “I nostri morti non sono polvere, ma radici”. Radici che attorno al suo letto, si stringono nella preghiera di una comunità, quella del Toro, che conosce la sofferenza, ma non la resa. Don Robella è un prete moderno, innamorato di Dio e del calcio. Gli piace coinvolgere i giovani ed ha il cuore acceso come una curva. Per questo da lassù, tra le nuvole di Superga, in tanti tifano per lui.


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