Editoriale

LA SECONDA GUERRA FREDDA

di Tommaso Cerno -

Tommaso Cerno


 

Mentre l’America carica i missili e i cinesi parlano di un pallone meteo, in uno scenario che torna quello del Muro che divideva il mondo, l’unico clima che si misura con quell’aggeggio volante è il clima da Guerra Fredda. La gente normale è esausta di questo stato di guerra vera in Ucraina. Esausta dei costi etici, esausta del prezzo materiale che milioni di italiani e di europei stanno pagando, in un momento in cui – checché ne dicano i dati delle previsioni, che ci hanno abituati a svarioni peggiori dei sondaggi alla vigilia del voto – l’Europa è fuori dalle grandi decisioni del pianeta e più povera. E proprio quando questo sentimento di sfinimento sta invadendo il nostro quotidiano, rendendo pure l’ospitalità di Zelensky a Sanremo stucchevole e fuori luogo, un pallone cinese che vola nei cieli ci schiude uno scenario se possibile ancora più cupo, quello di essere gli utili idioti, bardati della nostra migliore divisa democratica, di una guerra per ora fredda che riguarda Cina e Stati Uniti. E che ha già una dimensione mondiale. Oltre che essere proiettata nel futuro. Una guerra di capitali e spartizione. Di bombe e missili. Di tecnologia e dominio delle materie prime. Una specie di movimento tellurico che sta spostando la crosta globale del pianeta dai vecchi ai nuovi proprietari, scaricando i costi di tutto questo, e delle erronee previsioni degli ultimi vent’anni, sulle nostre spalle.
Quel pallone cinese e l’impressione che ha fatto, come in un film degli anni Cinquanta quando il mondo era davvero diviso, ci provoca all’improvviso lo stesso effetto che poteva suscitare qualche stravagante oggetto sovietico che cercava di spiare nella casa dell’Occidente. La reazione è stata di sentirci piccoli e pure un po’ fessi. Piccoli perché lo siamo, avendo lasciato abbondantemente nel secolo scorso ogni presunzione di primato reale nel nuovo mondo. Fessi perché ormai da qualche anno ci beviamo tutte le balle che ci arrivano addosso. A partire dal fatto che la fase in cui viviamo è proprio quella che avevamo progettato per l’Occidente. E che quindi dobbiamo sforzarci perché prosegua, anche quando ormai la distanza fra gli indicatori e la percezione reale sono distantissimi, non tornano, come in un ingranaggio che da qualche parte ha perso il bullone che faceva girare la rotella e teneva tutto quanto insieme.
Dunque non solo siamo stanchi della guerra che non volevamo e che al di là degli slogan e dei mantra democratici nessuno capisce fino in fondo e fa propria, ma siamo stanchi di non incidere, di non contare nulla, di guardare sempre come europei dalla parte sbagliata rispetto alla direzione della storia e dell’economia. E così, stanchi del vento contrario, incapaci di essere ostinati, alziamo gli occhi al cielo e scopriamo da un pallone magico di fabbricazione cinese che il mondo sta già molto più avanti di noi nel calendario globale e che è difficile invertire la traiettoria. Con tutto ciò che significa. A partire dagli Stati Uniti e dalla necessità di rinsaldare un’alleanza che non è mai stata paritaria per affrontare la vera Grande Guerra Fredda dell’era post-globale. Una guerra che l’Europa dovrà combattere (o meglio subire) al loro fianco.

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