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Attualità

La sicurezza insicura delle nostre città

di Giuseppe Tiani -


C’è una sicurezza che non rassicura. È quella che si misura nei numeri, nei decreti, nei protocolli, ma che da tempo ha smarrito la fiducia. Le nostre città, più illuminate e più presidiate, non sono più sicure perché impaurite. La paura è divenuta cultura urbana, un’architettura invisibile che plasma gli spazi e le relazioni sociali, separa e controlla. La democrazia, che doveva esserne l’antidoto, ne è divenuta il moltiplicatore.

Nelle periferie d’Italia si moltiplicano sigle e liste dai nomi anodini ma dai significati profondi, movimenti islamici pro-Pan e aggregazioni eterogenee che si presentano come voce dei “nuovi italiani”, ma che stanno trasformando la rappresentanza in appartenenza confessionale. Non è la diversità di fede a inquietare, bensì la sua politicizzazione: un radicalismo privo di compromesso sociale che destruttura la città in comunità chiuse, incapaci di riconoscersi in una sola Repubblica. A questa deriva certa politica ha reagito con una retorica della neutralità, frutto della più subdola delle crisi moderne, la crisi della verità. È la malattia di un linguaggio che non pesa più, che confonde la responsabilità con la convenienza.

Si predica inclusione senza educazione, pluralismo senza valori comuni, accoglienza senza integrazione. Così, dove un tempo quel che resta della sinistra storica coltivava emancipazione e coscienza civile, oggi crescono enclave etniche e paranze islamiche di seconda generazione, ragazzi nati qui ma cresciuti altrove, che cercano riconoscimento attraverso la violenza. Il loro rancore è il rovescio della nostra disattenzione e di uno Stato che ha smesso di educare. Moro lo comprese per primo quando affermò: “la democrazia può degenerare per eccesso di sé stessa, quando crede di poter vivere senza un’etica condivisa”.

La sicurezza è un dovere politico

Oggi la libertà si riduce a urlo, la giustizia e la sicurezza pubblica a indignazione di slogan populisti. Nel ricordo di Pasolini, a cinquant’anni dalla morte, nei saggi critici e pedagogici delle Lettere luterane, egli ammonì, “quando lo Stato abdica alla propria funzione etica, il potere reale si insinua e domina senza controllo”. Dove la Repubblica, attraverso Governo e Parlamento arretra, avanzano i suoi simulacri, ronde, movimenti identitari, liste confessionali che promettono protezione seminando divisioni. Ma lo Stato vive attraverso i partiti, e “i partiti sono la democrazia che si organizza”, ci ricordava Togliatti.

Quando la responsabilità pubblica smette di essere virtù civile, la degenerazione è inevitabile. La sicurezza non è un recinto né un’emergenza ma un dovere politico, la misura concreta per la fruibilità dei processi democratici e dello sviluppo. Se la città si blinda e la politica si fa spettacolo, l’insicurezza diventa questione di coscienza pubblica e spirito civico, il respiro stesso delle comunità. In questo scenario, l’azione del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si distingue per equilibrio e senso delle istituzioni, in un tempo in cui troppi confondono l’autorità con il potere.

La sua postura ricorda i magistrati repubblicani di cui scriveva Cicerone, uomini per cui governare non era dominio, ma servizio, sintesi dell’evoluzione culturale della pubblica sicurezza affidata alle cure della Polizia di Stato. Dunque, la sicurezza non è un’arma, ma un dovere verso le fragilità dei cittadini.

Da qui occorre ripartire. Da una sicurezza che non tema la libertà e da una libertà che non rinneghi la sicurezza che la garantisce, il binomio sicurezza-libertà non come opposizione, ma come correlazione di senso. Solo istituzioni che ritrovino la propria misura possono tornare credibili e capaci di proteggere davvero ma non con la paura, con la fiducia. La stessa fiducia che la Repubblica deve ai suoi presìdi quotidiani i lavoratori in uniforme blu della Polizia di Stato e delle altre Forze di Polizia che, come ricorda il sindacato di polizia Siap, sono sentinelle silenziose di una legalità che non reprime, ma custodisce la civiltà.


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