L'identità: Storie, volti e voci al femminile Poltrone Rosse



Cronaca

Latte versato, dignità calpestata: quando la Bologna “rossa” voltò le spalle agli italiani

di Alberto Filippi -


È il 18 febbraio 1947. L’inverno è nel suo gelo più feroce, le campagne emiliane sono coperte di ghiaccio, e nelle stazioni d’Italia ancora si respira la fame e la paura lasciate dalla guerra. Un treno merci avanza lentamente verso Bologna. Dentro quei vagoni non ci sono soldati, non ci sono armi: ci sono donne, vecchi, bambini. Sono italiani che scappano dalle foibe, dalla fame, dalla persecuzione di Tito, da quella Istria che una parte d’Europa ha deciso non fosse più Italia. Portano con sé valigie sdrucite e la disperazione di chi ha perso tutto: la casa, il lavoro, la terra e la dignità. La Croce Rossa ha preparato pasti caldi, un po’ di riso, latte per i neonati, conforto per chi ha conosciuto l’inferno. Ma a Bologna, la “Bologna rossa”, quella che si vantava di essere il cuore solidale d’Italia, accade qualcosa di inimmaginabile.

Le voci sindacali, legate alla sinistra di allora, annunciano lo sciopero. I ferrovieri minacciano di bloccare la stazione se quel treno, carico di esuli italiani, si fermerà. Dicono che non vogliono “servire i fascisti”, come se la fame, la paura, la disperazione potessero avere un colore politico. E quando il convoglio entra nella stazione, accade la vergogna. Si lanciano sassi e pomodori contro i vagoni. Il cibo destinato ai profughi viene gettato per terra, il latte preparato per i bambini viene versato sui binari, come se cancellare il nutrimento potesse cancellare anche la compassione. Le madri guardano, stringono i loro figli tremanti nel gelo, e comprendono che la patria che amavano non li vuole più.

Quel treno, che avrebbe dovuto portare soccorso, sarà ricordato per sempre come il “treno della vergogna”. E lo sarà perché in quella giornata Bologna mostrò il suo volto peggiore, quello dell’odio ideologico, dell’arroganza di una parte politica che, pur proclamandosi vicina al popolo, non esitò a umiliare il proprio popolo. Quell’episodio non fu soltanto un errore: fu una ferita nella coscienza nazionale. Perché chi voltò le spalle a quelle madri e a quei bambini non tradì un partito, tradì l’Italia stessa.

A Parma, poco dopo, qualcuno offrirà loro un pasto, un po’ di calore, un gesto umano. Ma la vergogna rimane. Rimane impressa nei ricordi di chi era su quel treno e di chi, ancora oggi, crede che la solidarietà non abbia ideologia. Eppure Bologna, la città dei professori, dei sindacati, delle piazze rosse, preferì allora la lotta di classe all’umanità.

Questa è una storia che non può essere archiviata, non può essere sepolta sotto il peso delle giustificazioni o del tempo. Perché ci sono ingiustizie che non appartengono solo alla Storia, ma al cuore della nazione. E questa è una di quelle. Un’Italia che dimentica il “treno della vergogna” è un’Italia che dimentica se stessa.

Oggi, chi si indigna per le tragedie del mondo — e fa bene a farlo — dovrebbe avere il coraggio di ricordare anche le proprie. Perché allora le vittime non erano lontane, non parlavano un’altra lingua, non appartenevano a un altro continente: erano italiani. E il latte che venne rovesciato sui binari non era solo un gesto di rabbia: era il simbolo dell’odio ideologico che calpesta la pietà, che sporca la coscienza.

Dimenticare quell’ingiustizia equivale a commetterla di nuovo. Nessuna bandiera, nessuna idea politica potrà mai giustificare quel gesto. Nessun tempo, per quanto lontano, potrà cancellarlo. E finché ci sarà un italiano che si sente tale, finché ci sarà un cuore che batte per questa terra, il ricordo di quel treno continuerà a pesare come una condanna morale. Perché il latte si può versare, la dignità no. E quella, quel giorno, fu calpestata da chi diceva di stare dalla parte del popolo, ma dimenticò di essere umano.


Torna alle notizie in home