Editoriale

L’EDITORIALE – La balena neroverde

di Tommaso Cerno -


La balena neroverde. Silvio Berlusconi aveva piantato ben salde le sue bandiere di leader del centrodestra proprio in quel pezzo di Italia che è stata negli ultimi decenni la locomotiva industriale del Paese. Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia sono state la cartina tornasole delle dinamiche più profonde di mutazione politica del berlusconismo.

Il regno di Roberto Formigoni e quello di Giancarlo Galan sono durati quasi vent’anni e a Trieste, in quello stesso periodo, Forza Italia aveva espresso i presidenti Roberto Antonione e, per ben due volte, Renzo Tondo. Una continuità interrotta solo dalla vittoria nel 2003 di Riccardo Illy, che sconfisse l’armata berlusconiana proprio quando Umberto Bossi cominciò a pretendere che in cambio di un supporto strutturale al governo del Cavaliere ci fosse una piena adesione all’idea di un Nord Est targato Lega.

Il primo esperimento andò fallito. La candidatura imposta dai vertici della leghista Alessandra Guerra finì per spaccare la coalizione in Friuli e aprire le porte della vittoria dell’outsider re del caffè. Un incidente che durò per una sola legislatura, ma che aprì la strada per la successione territoriale padana al regno nazionale del Cavaliere Berlusconi. E così dopo tre legislature Silvio cedette a Umberto e quell’area ricca si tinse di verde. In Lombardia arrivò Maroni, e poi Fontana, il doge Galan cedette il passo al trevigiano Luca Zaia. E il piccolo Friuli fece diventare protagonista della vita politica nazionale il giovane leghista “moderato” Massimiliano Fedriga.

Dopo più di dieci anni, quindi, alla vigilia delle candidature per le elezioni europee, che possono ridisegnare l’equilibrio del governo e le future scelte di Meloni, il tema sul tavolo è la terza successione nel Nord. Dove Fratelli d’Italia ha sbaragliato in Veneto, superando il 33%, e dove il risultato straordinario dei due governatori Zaia e Fedriga è condizionato da un fatto politico che a Roma viene molto sottovalutato: la forza elettorale delle liste civiche personali dei due big leghisti dal volto buono, che hanno catalizzato migliaia di voti provenienti da un’area moderata di centrodestra (e non solo) che ha preferito rifugiarsi nella dimensione civica e assistere in maniera disimpegnata alle due mutazioni in corso nella politica nazionale, quella di Fratelli d’Italia da partito di destra radicale a grande forza neocon europea, e quella di Forza Italia dopo la scomparsa del suo fondatore Silvio Berlusconi.

Meloni e Salvini sanno bene che alle Europee, dove i contenitori civici territoriali non saranno presenti con un proprio simbolo, quei voti saranno contesi fra la casa madre dei due leader del Nord Est, la Lega, e il partito che guida ormai in Italia il nuovo centrodestra post Silvio, Fratelli d’Italia, che alle Politiche ha convinto milioni di italiani a fidarsi della proposta del presidente del Consiglio Meloni. Una partita che, se stiamo ai dati storici, potrebbe cambiare di nuovo il colore del Nord Est e farlo per molti anni. In un momento in cui il premier ha bisogno di radicare la propria classe dirigente sui territori e Salvini di portare a reddito la storia politica del Carroccio, in crisi di consensi d’opinione ma forte nei Comuni e nelle amministrazioni locali. Ed è su questa questione profonda che il centrodestra sta cercando la quadra finale per presentarsi nella nuova era europea con un accordo che confermi la tenuta della maggioranza italiana ma non agiti troppo gli alleati di Giorgia. Secondo il vecchio adagio democristiano per cui il potere, per durare nel tempo, non può concentrarsi in un’unica persona.


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