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Lo Stato sociale a geometria variabile rende il Paese più fragile e disuguale

di Redazione -

HOMELESS ALLA STAZIONE TERMINI DI ROMA SENZATETTO SENZA TETTO DIMORA POVERTA' EMARGINAZIONE POVERI VITA IN STRADA ABBANDONO


di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

 

È piuttosto diffusa tra le forze politiche che si oppongono all’attuale governo l’idea che le politiche identitarie sbandierate a piè sospinto siano un diversivo, in grado di sviare l’attenzione da una sostanziale indifferenza nei confronti dei problemi che generano sofferenza sociale e ostacolano la possibilità di dare a tutti la possibilità di vivere in modo dignitoso. In realtà, se si adotta l’idea che per i partiti populisti e di destra lo Stato sociale non rientri tra le priorità dell’agenda politica e di governo, si rischia di non comprendere le ragioni del loro successo elettorale. Le proposte avanzate – e in parte già realizzate – in questo campo possono sembrare frammentarie e incoerenti, se osservate attraverso la lente della tradizionale divisione sinistra-destra. Ma solo perché rappresentano e promuovono una nuova e diversa logica di tipo redistributivo. Lo Stato sociale che i partiti populisti e di destra si stanno infatti impegnando a realizzare non risponde più a una ispirazione di tipo universalistico, quanto di tipo dualistico.
Dal momento che le diseguaglianze sociali vengono tradotte in termini morali e culturali, la povertà e la disoccupazione sono una colpa di cui ci si deve vergognare, per cui le disparità di condizione e di opportunità che si sono consolidate attraverso le generazioni non possono (e non devono) essere affrontate in termini di giustizia sociale e di responsabilità collettiva. Chi non ha futuro non può che incolpare se stesso, come si vede dalla retorica della meritocrazia, che occulta condizioni di partenza che quasi mai sono associate al merito (o al demerito) e che quasi sempre, invece, sono il risultato di patrimoni accumulati nel tempo. Le misure di contrasto alla povertà non vanno perciò ricalibrate o rimodulate, per esempio riconoscendo che si è trattato di strumenti di welfare e non di strumenti volti a facilitare la creazione di lavoro. Vanno semplicemente cancellate, perché frenano la volontà dei singoli di accedere a un mercato del lavoro dove le opportunità non mancano.
I potenziali beneficiari delle politiche sociali vanno perciò nettamente differenziati. I “poveri meritevoli”, capaci di integrarsi nel mercato del lavoro anche quando le circostanze sono tali da costringerli ad accettare mansioni poco qualificate, lavori precari e intermittenti, condizioni salariali poco dignitose e una situazione generale poco attenta ai diritti loro riconosciuti per legge, possono avvalersi delle prestazioni regolatorie di uno Stato sociale che opera in forma preventiva o reattiva. Tutti gli altri, come gli stranieri o i disoccupati di lungo periodo ma “occupabili”, vanno invece puniti, attraverso una progressiva riduzione dei benefici troppo generosamente erogati dallo Stato. Il loro eventuale accesso alle prestazioni sociali dovrebbe essere subordinato a politiche di welfare-to-work e a elementi di condizionalità – attraverso un apparato sanzionatorio che interviene direttamente sul benefit – volti a scoraggiare i comportamenti opportunistici da parte di chi percepisce sussidi e a imporre una rigorosa azione di controllo sugli eventuali abusi. L’idea è quella di un welfare selettivo e a geometria variabile. Lo Stato sociale non va improntato in senso universalistico, finanziando interventi a sostegno di chi si trova in povertà a prescindere dalla categoria più o meno fittizia nella quale viene fatto rientrare e che spesso non è mai riuscito neppure a entrare nel mercato del lavoro, almeno in quello formale. Lo Stato deve utilizzare la leva fiscale per riservare le prestazioni assistenziali ai “poveri meritevoli” e per ridurle, contrarle o ridimensionarle agli “occupabili” che scelgono l’inattività invece del lavoro.
Ora, è evidente – al netto delle eventuali conseguenze sul piano dell’occupazione – che l’introduzione di elementi di condizionalità può rappresentare un efficace fattore di contrasto nei confronti di comportamenti opportunistici, soprattutto se i destinatari dei benefici vengono costretti a seguire le indicazioni offerte dai centri dell’impiego – se e quando funzionano. Ma è anche altrettanto evidente che il quadro “ideologico” che impronta i provvedimenti del governo risponde a una impostazione moralistica, quasi che la povertà fosse sempre dovuta a cattiva volontà o scelte sbagliate, per cui chi si trova in una situazione di oggettiva difficoltà non merita l’aiuto del governo e dovrebbe essere abbandonato a se stesso. È come se la povertà fosse sempre dovuta a una mancanza di impegno quando, invece, molto spesso è riconducibile, almeno in parte, a fattori al di fuori del controllo di chi ne è vittima. E questa visione moralistica non va sottovalutata. Non solo perché risulta in chiara sintonia con settori del mondo sociale che un tempo guardavano (e votavano) dall’altra parte e sottrae al riformismo democratico uno degli spazi di trasformazione sociale nei quali ha potuto dare il meglio di sé, ma anche perché mette lo Stato nella posizione di poter decidere quali siano i cittadini bisognosi che avrebbero potuto evitare la propria povertà compiendo scelte migliori. E ciò sulla base della convinzione, moralistica appunto, che l’universo morale sia sempre organizzato in modo tale da associare la ricchezza con il merito e il duro lavoro, e la povertà con la pigrizia e l’indolenza. Una convinzione che ben si presta a a giustificare le misure di welfare a geometria variabile adottate dal governo per rendere la nostra società ancora più frammentata e diseguale.


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