Editoriale

Lo statuto dei licenziati

di Tommaso Cerno -


Lo statuto dei licenziati

di TOMMASO CERNO

È bello scoprire che il sindacato più forte d’Italia, quello che ha costruito lo Statuto dei lavoratori e che ha segnato la storia del Novecento, la Cgil, abbia attinto la sua cultura sindacale dalla pratica. Quella di licenziare. Perché più si scava dentro la confederazione guidata da quel Landini che già sente il seggio come prossimo obiettivo di una lunga carriera politica, più si scopre un mondo in cui si predica bene ma si razzola molto diversamente da come si predica.

Devono essere talmente esperti dei cavilli che contestano nelle piazze contro i governi, in particolare quelli di destra, che per essere sicuri di quanto il maleficio che vanno profetando possa abbattersi di colpo su milioni di lavoratori, in casa loro fanno le prove. E così le storie che comincio a raccontare oggi sono storie di italiani normali. Che hanno avuto la sfortuna di non lavorare per quegli imprenditori abituati al pericolo per la stabilità di addetti e funzionari d’impresa, che poi sono gli stessi che molte volte per pagare gli stipendi ci mettono i soldi loro, ma di trovare il posto sicuro in quello che all’apparenza era il tempio del tempo indeterminato, della dimensione umana del lavoro, dell’applicazione maniacale degli Statuti e delle regole.

Quel sindacato che, come capita a certi preti, studia bene la teoria e poi fallisce nella pratica. E così nel lungo elenco di contraddizioni federali e confederali che si sono elencate in queste settimane viene il dubbio che il lavoro stia messo così male in Italia perché proprio quelli che abbaiano non mordono. E che il ruolo che oggi il sindacato riveste è quello di stare in piedi, di sfruttare tutte le scappatoie possibili che con il suo benestare si sono create in quello che un tempo era il muro solido del diritto del lavoro, costruendo via via carriera politica a tutti quelli che in questa specie di gioco di ruolo finiscono a sedersi sulle poltrone più in alto. Non si tratta nemmeno di criticare, si tratta di prendere atto che alla fine le strutture che sono nate dalle contraddizioni di questo Paese ne sono diventate il suo specchio. D’altra parte anche un imbecille capisce che se i salari in Italia sono i più bassi fra tutti i Paesi industrializzati come il nostro in giro per l’Europa la colpa sarà pur di qualcuno. E se non è tutta è un concorso.

E quindi in una Repubblica dove si sono alternate ere geologiche di politica e l’unica cosa che è rimasta uguale sono le sigle sindacali, forse è venuto il tempo di ascoltare meno prediche e più mea culpa. E anche di dirci le cose come stanno: se siamo arrivati al punto di invocare il salario minimo come panacea di tutti i mali, significa che anche la sinistra sindacalizzata ha capito che la traiettoria che la Cgil ha preso non è certo quella che è scritta nel suo statuto e che in fondo il liberismo avrà anche contaminato i governi, le segreterie dei partiti, e perfino qualche cattedra di tribunale ma non ha certo lasciato indenne quello che un tempo era considerato l’antidoto sociale al sopruso del Palazzo e che oggi è un Palazzo come un altro. Forse perfino peggio.


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