Attualità

Mafia, spaghetti e nessun piano

di Redazione -


Le mafie? La verità è che contro di esse nel nostro Paese manca una strategia”. Catello Maresca è in magistratura dal 1999. Alla Dda di Napoli dal 2007, dopo 4 anni ha partecipato alla cattura del boss dei Casalesi Michele Zagaria, dopo averlo inseguito con le forze dell’ordine in decine di bunker “freddi” prima di quello aperto a Casapesenna il 7 dicembre di quell’anno. Maresca ha “gestito” decine di collaboratori di giustizia, tra i quali quell’Antonio Iovine latitante per 14 anni (“La latitanza dei boss – dice Maresca – è una delle sconfitte più gravi per il nostro Paese”) fino al 17 novembre 2010. Le parole di Maresca, agli studenti del liceo Manzoni di Caserta, il capoluogo di una terra di camorra, fino a quella stragista del boss Giuseppe Setola, autore della carneficina di Castel Volturno (“La sera del 18 settembre 2008 – ricorda il magistrato – questa nostra terra e l’Italia vissero una dello loro pagine più buie, mentre i tg di tutto il mondo aprivano con la notizia di questo delitto”). Contro le mafie, manca una strategia, allora? “In Italia ci sono gli strumenti – precisa -, ci sono le norme, le leggi e le azioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Ma è assente un’azione quotidiana e convinta per la prevenzione, per invertire la narrazione che le mafie costruiscono nel tessuto del nostro Paese, insieme alla loro economia illegale. Finora, si è detto da più parti, è mancata forse la volontà politica. Vediamo cosa potrà accadere. Non dobbiamo perdere la speranza”.
Da questa convinzione nasce quello che Maresca chiama “il mio secondo mestiere” (dopo l’esperienza politica nella corsa al Comune di Napoli nelle file del centrodestra, è a Campobasso alla Corte d’Appello). Un “secondo mestiere” esercitato anche a Caserta, partendo dal suo ultimo libro (La banalità della mafia, Fabbri ed.) in cui parafrasa il titolo del testo del 1963 sul nazismo di Hannah Arendt. Parla ai giovani anche con la lingua della sua terra, il napoletano, per svelare con i dettagli del suo racconto quanto sia “facile farsi affascinare dalla banale matrice delle mafie, che fornisce immediate utilità e il denaro facile, tarpando le ali alle legittime aspettative di un futuro ispirato a impegno, sacrificio e rinuncia. Parole oggi forse desuete che però devono ogni giorno farvi chiedere: Quanti chili di anima voglio mettere nel mio impegno?”.
Un invito concreto alla legalità di ogni giorno, contenuto nelle tessere di un racconto fatto di tanti episodi. Dall’aneddoto della sua “stanza” sempre operativa anche oggi nel Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dove ogni mattina studiava gli atti dei processi di camorra in cui rappresentava l’accusa, a quello del caffè che il boss Antonio Iovine gli preparò nella sua cella del carcere di L’Aquila (Dottò – disse – noi vi dobbiamo studiare, perché alla fine siete persone perbene, mentre noi vi abbiamo sempre visto come bastardi che si accaniscono contro di noi”). E Maresca commenta, rivolto ai giovani: “Aveva capito che noi eravamo due esseri umani nati uguali, prendendo poi strade diverse”. Quelle che – racconta ancora – sono intraprese quasi per caso, come il 19enne di Mondragone che mi sono trovato a giudicare, accusato di concorso in omicidio, un reato che prevede l’ergastolo, solo perché una sera si era trovato ad accompagnare in auto un amico sul luogo ove questi uccise una persona. O come la strada terminata troppo presto di Emanuele Sibillo, l’ultimo capo della paranza dei bambini divenuti noti per le “stese” nei quartieri di Napoli. Una storia che fa riflettere. In carcere a Nisida, seguì un periodo di riabilitazione, voleva fare il giornalista. Prima di tornare a delinquere e a morire a meno di 20 anni fulminato da una fucilata alla schiena, lasciando una moglie incinta del suo secondo figlio”.


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