Economia

MANOVRINA atto secondo

di Giovanni Vasso -

CAMERA


Manovrina, parte seconda. Non sempre i sequel sono all’altezza e la regola varrà, sicuramente, anche questa volta. Il secondo round sulla finanziaria si preannuncia, oltre che dall’esito molto scontato, anche politicamente scarico. Oggi parte l’iter della legge di bilancio al Senato, dopo l’approvazione avvenuta, all’alba della Vigilia di Natale, con 197 voti favorevoli e 129 contrari e due astenuti alla Camera dei Deputati. La seduta a Palazzo Madama inizierà alle 14, subito dopo la conferenza dei capigruppo che è stata convocata a ora di pranzo, alle 13. I lavori cominceranno con le comunicazioni del presidente Ignazio La Russa a cui seguiranno le dichiarazioni del ministro ai rapporti col parlamento, Luca Ciriani, che toglierà subito ogni appeal alla seduta. Ciriani, infatti, annuncerà che sul testo della manovra è stata apposta la fiducia. Dunque, niente emendamenti, niente dibattiti, niente cambi in corsa. A quel punto, la seduta potrebbe slittare al massimo di 24 ore e il Senato, a meno di ribaltoni assolutamente improbabili, dovrebbe ratificare a maggioranza tanto il voto favorevole alla manovra quanto quello di fiducia all’esecutivo Meloni. Che così si potrà presentare, all’ultima conferenza stampa del 2022, con il bilancio già votato e con il rischio dell’esercizio provvisorio, l’unico vero avversario con il quale hanno dovuto fare i conti centrodestra e Giorgia Meloni, già abbondantemente esorcizzato.
Una volta conclusa anche la conferenza della premier, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure ha avuto qualche ruolo di regia specialmente per far convincere il governo ad ascoltare i rilievi che sarebbero arrivati da Unione europea e Bankitalia, potrà firmare il documento di bilancio.
Il film della manovra, quindi, superato lo scoglio della Camera, va verso una conclusione scontatissima. Pochi i protagonisti di un dibattito che, a tratti, è parso surreale: in un Paese devastato dalla crisi energetica, con i climatizzatori spenti e i contatori a palla, dove i salari sono immobili e l’inflazione galoppa a due cifre, con la paura della disoccupazione e lo spettro della desertificazione industriale, la politica si è divertita a dividersi sull’opportunità di sparare ai cinghiali, di pagare il caffè con gli spiccioli o con le carte, scoprendo che poi basta che la Bce alzi di mezzo punto i tassi di interesse, promettendo nuovi e durissimi interventi contro l’inflazione, per mandare a carte quarantotto l’impianto stesso di una manovra che, per forza di cose, era ed è sbilanciata sulle misure per dare sollievo a imprese e famiglie contro il caro bollette. Mentre in Italia sembra che tutto debba restare com’è, in Europa il vento è cambiato. La banca centrale europea, oltre all’avvitamento della spirale dei tassi, ha intenzione di disfarsi di una parte importante dei titoli di Stato che ha in pancia. Da marzo, con Christine Lagarde trasformatasi da “civetta” (ipsa dixit) a falco necessitato dalle circostanze e, soprattutto, dalle pressioni del blocco mitteleuropeo, partirà un nuovo corso. Quello del quantitative tightening, l’esatto opposto del “bazooka” di Mario Draghi, la cui era sembra più che tramontata. Dell’ex governatore della Bce resteranno due eredità in piedi: il tetto al prezzo del gas, che pure sembra cominciare a sortire qualche effetto contro la speculazione internazionale (pochi giorni fa il costo al mwh era sceso sotto gli 85 euro, ai livelli pre-guerra in Ucraina) e questa manovra che, forse, lui avrebbe fatto uguale: il Draghiloni. Insomma, mentre si conclude il film sulla manovra, ne comincia un altro. Questo sì, drammatico e interessante.

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