Ottimisti per forza

Ottimismo obbligatorio. Anche perché, in fondo, peggio di così c’è solo da scavare. Una ricerca effettuata dalla società di consulenza Arthur D. Little su scala planetaria svela che i Ceo delle aziende più importanti al mondo “hanno una visione ottimistica” e “vedono le opportunità che derivano dalle turbolenze”. Al di là delle facili battute, e cioè che è facile, facilissimo, intravedere cose buone seduti su una poltrona dirigenziale, emergono dallo studio elementi che lasciano intendere come i manager si orienteranno e verso quali obiettivi e con quali strategie.
I più ottimisti sono gli amministratori delegati delle società energetiche che, in questi mesi, sguazzano – letteralmente – tra gli extraprofitti. Secondo l’80 per cento degli intervistati la situazione economica mondiale andrà a migliorare nel periodo compreso tra i prossimi tre o cinque anni. Comunque, nessuno di loro intravede peggioramenti significativi all’orizzonte. Anche perché, peggio di così, è dura. Poco meno di un quarto dei Ceo di imprese della manifattura sperano nella crescita così da attrarre, trattenere e motivare i migliori talenti che hanno o possono avere tra le loro fila. Lo spettro della Great Resignation, delle dimissioni di massa e della liquidità che ha precarizzato il lavoro, una volta tanto, anche dalla parte del datore, è vivo specialmente nei settori dove la qualità del lavoro individuale è fondamentale per il prodotto. Secondo banche e istituti finanziari, invece, a guidare la crescita saranno le aspettative degli investitori e, soprattutto, le indicazioni che arriveranno dai Cda. Il 51% dei manager ne è assolutamente convinto. I padroni, in fondo, restano sempre i padroni. E poiché il loro parere è (quasi) insondabile persino a loro, i dirigenti si dividono tra chi (il 29%) aumenterà gli investimenti per crescere e chi (il 10%), invece addirittura li ridurrà. Seguendo l’esempio che è arrivato da alcuni giganti del settore come Credit Suisse, Goldman Sachs e Morgan Stanley. Che, più discretamente rispetto alle major digitali ma con altrettanta potenza, hanno proceduto a sfrondare il proprio personale. Se società di servizi finanziari e company energetiche sono assolutamente ottimiste, gli industriali invece hanno poco da veder rosa. Difatti, il 59% dei ultimi capitani d’industria rimasti ritiene probabile un’ulteriore calo dell’economia globale. C’è poco da stare allegri, insomma. Ma c’è, soprattutto, da capirli, gli industriali. Si sono ritrovati a fare i conti con gli aumenti spropositati del costo delle materie prime, energia su tutte, che è stato motivato nell’escalation delle tensioni geopolitiche sfociate nella guerra tra Russia e Ucraina, nel braccio di ferro tra Usa e Cina sul Pacifico. È normale che, in queste settimane in cui il clima sembra farsi ancora più rovente tra gli attori in campo, gli industriali inizino a temere nuovi contraccolpi e credano, più che una possibilità, una chimera l’ipotesi stessa di un ritorno della crescita. Ma l’ottimismo, appunto, deve essere obbligatorio. I risultati della ricerca, che sottolinea il vecchio refrain della “crisi che vuol dire opportunità”, rispecchiano – oltre all’entusiasmo di chi, tra banche e società energetiche, ha fatto grandi affari grazie alla crisi – i dubbi e le perplessità del sistema produttivo occidentale. Nonostante l’obbligatorietà dell’ottimismo.
Ottimismo obbligatorio. Anche perché, in fondo, peggio di così c’è solo da scavare. Una ricerca effettuata dalla società di consulenza Arthur D. Little su scala planetaria svela che i Ceo delle aziende più importanti al mondo “hanno una visione ottimistica” e “vedono le opportunità che derivano dalle turbolenze”. Al di là delle facili battute, e cioè che è facile, facilissimo, intravedere cose buone seduti su una poltrona dirigenziale, emergono dallo studio elementi che lasciano intendere come i manager si orienteranno e verso quali obiettivi e con quali strategie.
I più ottimisti sono gli amministratori delegati delle società energetiche che, in questi mesi, sguazzano – letteralmente – tra gli extraprofitti. Secondo l’80 per cento degli intervistati la situazione economica mondiale andrà a migliorare nel periodo compreso tra i prossimi tre o cinque anni. Comunque, nessuno di loro intravede peggioramenti significativi all’orizzonte. Anche perché, peggio di così, è dura. Poco meno di un quarto dei Ceo di imprese della manifattura sperano nella crescita così da attrarre, trattenere e motivare i migliori talenti che hanno o possono avere tra le loro fila. Lo spettro della Great Resignation, delle dimissioni di massa e della liquidità che ha precarizzato il lavoro, una volta tanto, anche dalla parte del datore, è vivo specialmente nei settori dove la qualità del lavoro individuale è fondamentale per il prodotto. Secondo banche e istituti finanziari, invece, a guidare la crescita saranno le aspettative degli investitori e, soprattutto, le indicazioni che arriveranno dai Cda. Il 51% dei manager ne è assolutamente convinto. I padroni, in fondo, restano sempre i padroni. E poiché il loro parere è (quasi) insondabile persino a loro, i dirigenti si dividono tra chi (il 29%) aumenterà gli investimenti per crescere e chi (il 10%), invece addirittura li ridurrà. Seguendo l’esempio che è arrivato da alcuni giganti del settore come Credit Suisse, Goldman Sachs e Morgan Stanley. Che, più discretamente rispetto alle major digitali ma con altrettanta potenza, hanno proceduto a sfrondare il proprio personale. Se società di servizi finanziari e company energetiche sono assolutamente ottimiste, gli industriali invece hanno poco da veder rosa. Difatti, il 59% dei ultimi capitani d’industria rimasti ritiene probabile un’ulteriore calo dell’economia globale. C’è poco da stare allegri, insomma. Ma c’è, soprattutto, da capirli, gli industriali. Si sono ritrovati a fare i conti con gli aumenti spropositati del costo delle materie prime, energia su tutte, che è stato motivato nell’escalation delle tensioni geopolitiche sfociate nella guerra tra Russia e Ucraina, nel braccio di ferro tra Usa e Cina sul Pacifico. È normale che, in queste settimane in cui il clima sembra farsi ancora più rovente tra gli attori in campo, gli industriali inizino a temere nuovi contraccolpi e credano, più che una possibilità, una chimera l’ipotesi stessa di un ritorno della crescita. Ma l’ottimismo, appunto, deve essere obbligatorio. I risultati della ricerca, che sottolinea il vecchio refrain della “crisi che vuol dire opportunità”, rispecchiano – oltre all’entusiasmo di chi, tra banche e società energetiche, ha fatto grandi affari grazie alla crisi – i dubbi e le perplessità del sistema produttivo occidentale. Nonostante l’obbligatorietà dell’ottimismo.
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