PRIMA PAGINA – Conte si è preso il Movimento: la più efficace scalata ostile della politica italiana
In quest’ultimo capitolo del reportage sulla vera storia del Movimento Cinquestelle, s’intende illustrare come concretamente si è conclusa la presa del potere assoluto da parte di Giuseppe Conte, buon avvocato e docente universitario ma totalmente estraneo al M5S, la sua storia, la sua cultura, i suoi rituali. Un corpo estraneo che conquista un partito per il quale non ha nemmeno mai votato, entrando nella storia – comunque vada a finire – per la più efficace scalata ostile mai vista nella politica italiana del dopoguerra.
Come abbiamo raccontato, con l’approvazione dello Statuto di Conte e della sua leadership, ogni potere anche solo di indirizzo della base del Movimento, cessa di colpo. Questa realtà arriva come una doccia gelata per una comunità che riponeva grande fiducia in Conte, dopo averlo apprezzato nel ruolo difficile di Presidente del Consiglio. Proprio la fiducia acquisita e meritata sul campo da Conte, innesca una sorta di doppio sentimento nella base elettorale grillina e soprattutto negli attivisti. Una devianza sentimentale che ricorda quanto raccontava Italo Calvino al ritorno dal suo viaggio in URSS, diviso fra la fascinazione verso una nazione che aveva realizzato l’agognata ideologia comunista (e che dunque era per principio da sostenere) e la constatazione amara di quanta povertà e limitazione della libertà vi fosse in quel paese. L’attivista del Movimento sogna che la leadership di Conte – un uomo autorevole, dal CV e dalle referenze più affidabili che un Di Maio o un Grillo – porti finalmente il M5S a decollare e a stabilizzarsi come punto di riferimento fisso della politica italiana, e immagina gloria, successi elettorali e concreta e definitiva realizzazione della democrazia dal basso, utopica ideologia grillina che tanti italiani aveva ammaliato. Eppure c’è proprio davanti ai loro occhi uno statuto che alla base ha tolto tutto, dunque ad ogni passaggio determinante – le scelte dei referenti locali, le imposizioni sulle alleanze, le candidature imposte dall’alto – il militante pentastellato si ritrova nell’imbarazzo di dover sostenere quasi sempre il contrario di ciò che auspicava, di dover ingoiare bocconi amari nella speranza (rectius: nell’illusione) che domani conterà nuovamente qualcosa, di dover subire una batosta elettorale dietro l’altra con pochissime eccezioni. Vediamo nei fatti cosa è successo dopo i disastrosi risultati elettorali delle amministrative 2021 e 2022 di cui vi abbiamo detto nei giorni scorsi.
Sostegno disperato a Draghi per tenersi i suoi
“Non si permetta nessuno di dire che il Movimento dice No a Draghi: il Movimento dice Sì a Draghi, con una grande assunzione di responsabilità dopo aver detto sì un anno fa, ed oggi che la nave è ancora in tempesta il Movimento dice Sì a Draghi, anzi rafforza il proprio sì”. Chissà se Di Battista, Travaglio, Sommi, Scanzi e tutti i turiferari di Conte ricordano di queste parole, che non ha pronunciato Beppe Grillo ma sempre Conte, benché da mesi (anni?) si racconti la favoletta di Grillo draghiano e Conte grillino. La verità è che queste sua parole di sostegno senza se e senza ma, erano stimolate dal malcontento dei propri parlamentari nei primi mesi del 2022. In tantissimi minacciavano che – in caso si fosse voluto sfiduciare Draghi – avrebbero dato il benservito al caro leader e cercato altri approdi non volendo perdere un anno di indennità per le elezioni anticipate. Quindi – ed anche qui il ribaltamento della realtà è da manuale di psicologia sociale – la leggenda che sia stato Conte a far cadere Draghi è priva di fondamento. Draghi se ne va, stizzito, perché Lega e FI (Salvini e Berlusconi) gli comunicano che non ne vogliono più sapere. Il M5S di Conte, dopo il suo appello disperato in favore di telecamere, non voterà mai mezza sfiducia a Draghi. Eppure quando Draghi cade (ciò che distrugge il progetto politico di Di Maio), Conte all’angolo tenta la strada dell’anti-draghismo, dopo aver sostenuto Draghi sempre e comunque ed aver votato tutti i provvedimenti del governo Draghi – fiducie comprese – senza mai fiatare. Ci era riuscito già Berlusconi nel 2013: dopo esser stato una pedina fondamentale del governo Monti impostò tutta la campagna elettorale contro Monti, ottenendo un risultato clamoroso.
Ci riesce anche Conte, a raccontare questa favola, la ripete in lungo e in largo nei talk-show e nelle piazze, e convince quanto meno una parte del proprio elettorato, dunque pur non vincendo limita i danni. Il 25 settembre 2022 si vota per il Parlamento nazionale e per la Regione Siciliana. Conte ormai spostatosi (senza consultare gli iscritti!) nel centrosinistra, organizza le primarie di coalizione per scegliere il candidato Presidente in Sicilia. Vorrebbe a tutti i costi confermare quale candidato presidente Giancarlo Cancelleri che ha già fatto due mandati, e così inaugurare la stagione delle deroghe alla regola aurea, ma Beppe Grillo lo stoppa: niente deroghe né per le regionali né per le nazionali. Sarà l’ultima volta in cui il fondatore del Movimento avrà un peso in una decisione. Conte ingoia il rospo, ma non procede ad alcuna consultazione online fra i propri iscritti siciliani: sceglie lui – dall’alto, come al solito, ignorando la base – di proporre Barbara Floridia. La Floridia è senatrice, non potrebbe correre per la Regione, ma le forzature a Conte piacciono poiché fanno capire ai potenziali dissidenti che il Marchese del Grillo ora è lui, e si fa come lui ordina. Floridia, sottosegretaria nel governo Draghi e già super-dimaiana salita sul carro del nuovo corso, perde nettamente le primarie. Conte però incredibilmente tradisce anche quell’alleanza che proprio lui aveva voluto senza coinvolgere la base, e decide di non appoggiare la vincitrice Caterina Chinnici, di beffare la coalizione e di candidare, ancora una volta senza indire primarie e senza consultare gli iscritti, il gelese Nuccio di Paola. Quella scelta, insieme al tradimento che adesso vedremo dei risultati delle parlamentarie, è il punto di non ritorno rispetto al potere che Conte si prende di scegliere di fatto anche gli eletti, e non solo alleanze e linea politica.
Il M5S si prepara dunque al voto nazionale (senza Di Maio) facendo le primarie online. Per esprimere ciò che accade, e che era impensabile nemmeno in un film di fantascienza sui Cinquestelle solo qualche mese prima, diamo dei dati incredibili: la persona più votata in assoluto in Italia, alle parlamentarie cinquestelle, si chiama Francesca Flati, con 1.695 voti. Fra gli uomini il più votato d’Italia è Marco Bella, con 1.139 voti. Ebbene: nel M5S di Conte nessuno dei due verrà eletto, perché arbitrariamente il leader-padrone gli antepone altri candidati. È una svolta epocale: Conte, pur avendo indetto le parlamentarie, decide che a proprio insindacabile giudizio può piazzare dei capilista (prima anomalia), può candidare sé stesso ed altri in più collegi (seconda anomalia), può spostare i candidati in collegi diversi dalla loro residenza (terza anomalia e ferrea regola grillina distrutta senza consultare la base). Così il più votato d’Italia viene scavalcato dal signor Alfonso Colucci, notaio personale di Conte, che la base del Movimento non sa nemmeno chi sia, ma che diventa deputato alla faccia di ciò che avevano scelto gli iscritti. Il professor Marco Bella scala al terzo posto (c’è l’alleanza di genere) e dice addio al Parlamento: non era un contiano, e non pare un caso che venga fatto fuori. Nemmeno Francesca Flati è contiana in senso stretto, e viene scavalcata con uno stratagemma ancora più sottile: gli si piazza davanti Francesco Silvestri, capogruppo uscente, che fa parte del “listino di Conte”, cioè i piazzati. Così si ammazza chi ha vinto le primarie e si “educa” chiunque non sia allineato.
È una dimostrazione di potere tanto arbitraria quanto forte, perché abbatte un altro totem del grillismo, cioè che in Parlamento va chi viene scelto dagli iscritti. Ma c’è di più: per non far rischiare i suoi fedelissimi di rimanere fuori, Conte li piazza ovunque: Alessandra Todde, sarda, viene eletta in Lombardia, Stefano Patuanelli, friulano, nel Lazio, il sardo Licheri in toscana e Conte stesso, candidato in più collegi, sceglie la Lombardia. Della democrazia diretta rimane davvero pochino, e così della diversità asserita del M5S rispetto ai partiti che con successo ha contestato da quando esiste: si passa al decisionismo di vertice, roba da partito personale che era impensabile e che lascia la base smarrita, causando numerosi abbandoni. Come sempre ciò avviene con il pieno sostegno della stampa amica: un articolo del Fatto prende in giro Franceschini poiché il PD lo candida in Campania, ma di fare le pulci ai fedelissimi di Giuseppi catapultati a 1.000 km di distanza non gli viene in mente. Siamo all’omissione quotidiana, che a breve diventerà omertà o stravolgimento del passato, come nel racconto su Draghi.
Il crollo dei consensi e l’eliminazione di Grillo: il cerchio si chiude e nasce il Movimento di Conte
Ma come vanno, le elezioni nelle quali Conte fa capire una volta per tutte che è lui a comandare e chi non si allinea è fuori? Le regionali in Sicilia segnano il peggior risultato della storia per il M5S: Nuccio di Paola arriva quarto su quattro, e benché si voti nello stesso giorno delle nazionali dove invece il M5S va bene, per la regione racimola un misero 13,6%. Significa che il candidato imposto dall’alto era talmente inviso che nello stesso giorno le persone votavano M5S per Camera e Senato ma altri partiti per la regione: il M5S passa così da 20 deputati regionali ad 11. Ciò non scalfisce minimamente Conte, che conferma Di Paola quale referente regionale nonostante il disastro. Le nazionali vanno male ovunque è il peggior risultato di sempre: il 14,53%, Percentuale dimezzata rispetto al 2018, e numero di voti assoluti dimezzati anche rispetto al 2013. Se nella sola Lombardia si perdono 816mila voti alla camera e pochi meno al Senato, anche nelle regioni dove il risultato percentuale è discreto, le prime elezioni con Conte leader segnano un calo spaventoso: alla camera in Campania persi 691mila voti, in Sicilia 605mila, in Puglia 495mila, e così via. Questi numeri potevano ammonire Conte su quanto fosse importante coinvolgere la base, rimotivarla, far scegliere i candidati e le alleanze dopo aver imposto i propri uomini quali referenti regionali e provinciali, ma invece queste scelte personali e arbitrarie vengono addirittura estremizzate: per Conte l’importante è prendersi il movimento, una volta per tutte. Così alle regionali nel Lazio Conte si fida dell’indicazione di Paola Taverna e – sempre senza consultare nessuno – decide di non andare col centrosinistra e di candidare alla presidenza tal Donatella Bianchi, volto Rai che porta il M5S ad un disastroso 10,7% e che il giorno dopo le elezioni si guarda bene dall’andar a fare il proprio dovere di consigliera regionale ma saluta tutti e torna in TV.
Una beffa tremenda per gli attivisti capitolini, bissata dalla scelta di due consiglieri neoeletti di fuggire poco dopo verso Forza Italia. Arriviamo ai giorni nostri: nel 2024 si vota in sette regioni e alle europee. Il Movimento non consulta mai gli iscritti: è Conte a decidere di andare da solo in Piemonte e in coalizione in Basilicata, Sardegna, Abruzzo, Liguria, Umbria, Emilia Romagna. È sempre Conte a eliminare le “regionarie” e produrre insieme ai referenti locali un listino già pronto, sul quale gli iscritti dovranno dire solo sì, o no: lo stesso metodo usato per incoronarlo leader. Il M5S segna risultati pessimi di lista, ma riesce a piazzare il suo primo Presidente, quell’Alessandra Todde mai vicina al M5S fino al 2019 e poi improvvisamente calata dall’alto alle europee 2019 da Di Maio quale capolista e trombata, calata dall’alto con la poltrona di viceministro nel governo Conte 2 e nel governo Draghi, calata dall’alto come vicepresidente del Movimento, calata dall’alto nel listino di Conte alle nazionali per assicurarle la poltrona, eletta in Lombardia, e poi – da deputata della Lombardia, in sfregio a quanto dichiarato dallo stesso Conte a L’aria che tira sul fatto che gli esponenti del M5S se chiedono i voti per un seggio poi lì rimangono – calata dall’alto pochi mesi dopo l’elezione alla camera come candidata in Sardegna. Il caso Todde è l’emblema perfetto della trasformazione del M5S da forza di eguali, dove ciascuno ha pari possibilità di emergere, in partito verticista dove a emergere sono i favoriti del Principe. Però Todde almeno vince la sua battaglia, mentre nelle regioni ed in Europa è un disastro: le lista M5S vanno da un 3,5% in Emilia al 7,6 della Basilicata. In Sardegna il 7% si raggiunge solo grazie ad una lista di indipendentisti inglobata nel simbolo, è il PD a tirare la volata a Todde.
Alle Europee si registra il peggior risultato di sempre: sotto il 10. Conte sceglie dall’alto i capilista e regala – fra gli altri – un seggio al renziano Antoci, che era sul palco della Leopolda nel 2016 a dirci quanto fosse meravigliosa la riforma costituzionale di Renzi, mentre Di Battista girava l’Italia in scooter per spiegare il contrario. Eppure, alla fine di questo tormentato percorso, Conte ha stravinto la sua battaglia con questa “Assemblea costituente” e si è preso il M5S defenestrando pure Beppe Grillo, come nel bel film “The founder”, che racconta l’incredibile storia della catena McDonald’s. E’ la fine dello spirito cinquestelle, certo, ma non la fine del partito, anzi potrebbe rappresentare una rinascita.
Che ne sarà domani? Cosa farà Grillo? Quanto vale il Movimento divenuto partito di Conte? Analizzeremo nei prossimi giorni ogni ipotesi, tornando ad occuparci dell’attualità della politica italiana, nella quale – piaccia o meno – il M5S è una pedina ancora importante.
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