Politica

Quel moralismo della sinistra jr. che legge Pasolini come lady oscar

di Fulvio Abbate -


La riflessione sull’omosessualità di Pier Paolo Pasolini non può essere spiegata con la citazione tardo-adolescenziale dei manga giapponesi, ovvero Lady Oscar, oggetto d’affezione LGBT. Come rendere banale la verità storica e perfino carnale di uno scrittore. Marx, Gramsci e lo “straccetto rosso” cancellati dai cartoni acetati. Per chi ne ignori l’esistenza nei trascorsi palinsesti pomeridiani, Lady Oscar è una fanciulla bionda in uniforme da spadaccino maschio nel tempo della rivoluzione del 1789, l’ambiguità di genere come significante. La scrittrice Chiara Valerio, ragionando sulla sostanza di PPP, chiama in causa proprio Lady Oscar, ai suoi occhi chiave di lettura del disvelamento omosessuale. Si possono utilizzare ordinari feticci della subcultura pop perfino nella riflessione ontologica, lo ha fatto il filosofo Giulio Giorello con Tex Willer, resta che Chiara Valerio non possiede la sciabola di Giorello, e la sua narrazione di Pasolini mostra modalità da “cosplay”. Come depotenziare l’omosessualità di Pasolini, disincarnarla dal suo prosaico quotidiano esistenziale. Per paradosso, appare più pertinente la gaffe dell’allora presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che, commemorandolo a Palazzo Madama, lo evocava “Gian Paolo”. Ancora in tema di garbate mistificazioni, tornano le parole di Marco Pannella. Il leader radicale rilevava che i comunisti, per moralismo e ipocrisia, ritenendo indicibile una “morte da frocio” (sic), avevano scelto di declinarne l’epilogo tragico attraverso la tesi edificante del complotto politico fascista, così ignorando il nodo dell’omosessualità stessa. Accostare Pasolini a Lady Oscar con modalità da turismo letterario giovanile corrisponde ancora una volta a omettere la sostanza della sua praxis omosessuale, sebbene lo scrittore l’abbia esplicitata nel suo portato masochistico, nero su bianco. Occorre dare atto a Dacia Maraini d’essere stata tra i pochi a riconoscere che Pasolini amasse “farsi picchiare”. Basterebbe citare “Il pratone della Casilina”, capitolo del romanzo “Petrolio”, dove scorre una sequenza estenuante di coiti orali che assomiglia a una esecuzione per cancellare ogni lettura da educandato. Moralismo edificante della sinistra giovanile perbene sostituisce i boccoli dorati dell’eroina manga ai brufoli e al ghigno di Pino Pelosi e d’ogni altra “marchetta” che accompagna il quotidiano erotico dello scrittore fino alla morte all’Idroscalo di Ostia. Un bel libro di Andrea Pini, pubblicato dal Saggiatore, “Quando eravamo froci, gli omosessuali nell’Italia della dolce vita”, raccoglie, fra l’altro, testimonianze dirette sull’omosessuale Pasolini, lì definito in tutta la sua attitudine fortemente autopunitiva. Fuori da ogni post-verità, si tratta semplicemente di liberare Pasolini da una lettura che impropriamente ne trascende la sostanza, anche la più drammatica e oscena; impronunciabile. Anche il “corpo” citato da Chiara Valerio evocando Simone Weil ignora le pagine de “La condizione operaia” sulla fatica materiale o ancora lei miliziana con gli anarchici della Colonna Durruti in Spagna nel 1936, il filosofo (tale si riteneva Simone, al maschile) viene semmai trasfigurato in poster edificante da attichetto romanzesco. Così come Berlinguer è ormai reificato in Padre Pio della sinistra svanita, Pasolini appare non meno feticcio glamour caravaggesco, spolpato d’ogni rabbia politica; della sua critica alla società più nulla restano sullo sfondo dei cosplayer in costume da Lady Oscar.


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