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Ue-Cina, il miraggio dell’autonomia Se la prova di forza è un flop annunciato

di Redazione -

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La parola d’ordine è “autonomia strategica”. La brandisce Emmanuel Macron alla vigilia del viaggio a Pechino. La conferma Ursula von der Leyen davanti alla plenaria di Strasburgo di ritorno dalla Cina. La richiama Giorgia Meloni dal Salone del Mobile di Milano. Tutti a ricercarla quest’autonomia strategica, della quale il Vecchio continente sente il bisogno sempre più pressante dall’epoca del Covid in poi. E ancor di più da quando, ormai più di un anno fa, si è fatto trovare con tutte le scarpe in una guerra che non avrebbe voluto e che invece è costretto, suo malgrado, ad alimentare a suon di miliardi di euro e armi all’Ucraina per compiacere l’alleato di sempre, gli Stati Uniti, a loro volta impegnati nella madre di tutte le battaglie, quella contro la Cina per la certificazione dell’esistenza in vita di quel mondo unipolare che in realtà le vicende quotidiane ci indicano in veloce e ineluttabile dissoluzione.
La Cina, appunto, nei confronti della quale l’Unione Europea non è stata, negli anni, il massimo della coerenza, lasciando che i propri Stati membri approcciassero al Dragone in ordine sparso, guidati dalla Germania, inseguendo i propri interessi di parte, per poi ultimamente invertire la rotta e provare una politica di avvicinamento. Perché, è la stessa von der Leyen a ribadirlo a Strasburgo, “non vogliamo tagliare i legami economici, sociali, politici e scientifici. Abbiamo molti legami forti e la Cina è un partner commerciale fondamentale: i nostri scambi valgono circa 2,3 miliardi di euro al giorno”. Ma è arrivato il momento di riequilibrare i rapporti sulla base di tre concetti chiave: trasparenza, prevedibilità, reciprocità. In sostanza, secondo la presidente della Commissione, Pechino dovrebbe rispettare la parità di condizioni quando le nostre aziende provano ad accedere al mercato cinese, oltre a garantire la proprietà intellettuale. Obiettivi sui quali è lecito nutrire qualche dubbio se solo si guarda all’atteggiamento di Xi e compagnia negli ultimi anni.

Ma dove l’ingenuità dei vertici dell’Unione raggiunge l’acme è sulla considerazione a proposito dello stretto legame che intercorre tra sviluppo militare e economico. “Gli investimenti cinesi – detta von der Leyen – mettono a rischio la nostra sicurezza economica e nazionale in particolare nel contesto dell’esplicita fusione da parte cinese dei suoi settori militare e commerciale”. Tradotto: se Pechino continua a rafforzarsi militarmente di pari passo con lo sviluppo economico, l’Europa deve correre ai ripari. Difficile credere che la numero uno dell’Unione europea non sappia che per la Cina, i cui primi prestiti nell’ambito della Nuova Via della Seta sono stati emessi in dollari, l’egemonia militare e il potere monetario sono fortemente legati. Come d’altronde vale per tutti i Paesi, secondo un vecchio dogma che ha guidato l’egemonia degli Stati Uniti da Bretton Woods in poi. Quanto più forti sono i legami militari di un Paese con gli Usa, tanto più tale Paese dipenderà dal dollaro americano. Uno studio della Fed ha mostrato come i tre quarti delle riserve mondiali di dollari siano detenuti da Paesi con forti legami militari con gli Stati Uniti. E la Cina, che con i Brics sta guidando il fenomeno della dedollarizzazione, sa benissimo che abbattere l’egemonia militare statunitense è l’unico modo per aver qualche chance di pareggiare l’impatto della moneta americana nel commercio globale. E’ chiaro, quindi, che gli avvertimenti lanciati da lontano a Xi dalla von der Leyen appaiono strumentali ad una ricerca di consenso interno piuttosto che ad una reale speranza di centrare un obiettivo, quello dell’autonomia strategica, che per l’Europa sembra lontano. Tardivo, in questo senso, soprattutto il tentativo di recuperare il rapporto con i Paesi del Corno d’Africa, mandando Meloni e l’Italia in avanscoperta, dopo decenni di fallimentari politiche commerciali e migratorie, che hanno lasciato campo libero a Russia e Cina sul tema delle cosiddette materie prime critiche. Una vicenda sulla quale, ne hanno convenuto anche al recente G7 di Sapporo, si gioca il futuro dei sistemi energetici delle economie avanzate. E che oggi è in pieno controllo di un Paese, la Cina, ritenuto ostile dagli Stati Uniti e sul quale, invece, l’Unione europea sembra non avere una posizione comune e condivisa.

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