Economia

PRIMA PAGINA – Cina, Usa e Ue: il dilemma dei dazi

di Giovanni Vasso -

epa07914319 US President Donald J. Trump holds a letter presented to him by President of China Xi Jinpping during his meeting on trade negotiations with Vice Premier of China Liu He (not pictured), in the Oval Office of the White House in Washington, DC, USA, 11 October 2019. Trump announced they 'have come to a very substantial phase one deal' as part of a multiphase trade deal while meeting with Liu on the second day of a new round of face-to-face trade negotiations between high level Chinese and American officials. The US agreed to hold off on increasing tarrifs set to begin 15 October and China has agreed to increase its purchase of US agricultural products. EPA/MICHAEL REYNOLDS


Forza e coraggio, dopo un mese d’aprile duro e nero come la paura dei dazi, è arrivato maggio anche per Usa, Cina e Ue. Maggio, che fa rima con coraggio, appunto. Quello che le Borse, in tutto il mondo, hanno ritrovato non appena, da Pechino, è giunta un’apertura al tavolo con gli Stati Uniti. La pace, quella commerciale vieppiù, conviene a tutti. Tutti la vogliono. Epperò al vertice degli Stati, delle federazioni, delle potenze ci sono pur sempre politici e burocrati. Che devono fare i conti con il più pernicioso degli avversari: l’orgoglio. Che spinge a pensare, prima di ogni altra cosa, a salvare la faccia. La pace va preservata. Ma non a ogni costo. Ed è per questo che ieri, dopo le aperture giunte dal ministero del commercio estero di Pechino, i media cinesi hanno iniziato ad affastellare condizioni su condizioni all’istituzione dei tavoli. “Inchinarsi a un bullo è come bere veleno per dissetarsi”, recita uno dei tanti video ufficiali messi in rete da Yuyuan Tantian, profilo social riferibile all’emittente statale Cctv. Un’immagine forte che fa il paio con la notizia secondo cui nessuno, dentro e fuori dalla Città Proibita, intende avviare negoziati almeno finché non saranno annullate tutte le misure tariffare “unilaterali” imposte dagli Stati Uniti. Però la voglia di ragionare c’è, eccome. E, forse, sono proprio le parole forti a confermarle. Così a Pechino, così a 7.957 chilometri di distanza, a Bruxelles. Dove il portavoce per il Commercio della Commissione Ue, Olof Gill, ha ritenuto opportuno smentire il titolo a nove colonne del Financial Times, secondo cui l’Europa avrebbe offerto agli Stati Uniti di ripianare la bilancia commerciale, in materia di beni, investendo almeno 50 miliardi di euro in importazioni di merci americane. “Al momento non c’è stata alcuna offerta formale agli Stati Uniti. Quello che è successo finora – ha spiegato Olof Gill – è che abbiamo discusso le aree in cui, da parte nostra, crediamo di poter potenzialmente trovare un accordo. Dobbiamo davvero sottolineare che siamo pienamente coinvolti nelle nostre discussioni con gli Stati Uniti. Una soluzione negoziata rimane il nostro chiaro e preferibile esito. Non faremo commenti dettagliati sui negoziati in corso, ma siamo assolutamente impegnati a trovare con gli Stati Uniti degli accordi che siano vantaggiosi per entrambe le parti. E questo è tutto ciò che possiamo dire per il momento”. A Gill, evidentemente, nessuno ha spiegato quel vecchio adagio del giornalismo per cui una smentita è una notizia data due volte. E, nemmeno, che parlare di “ipotesi sul tavolo” in riferimento a quanto scritto dal Ft, rappresenta una sostanziale conferma. Il guaio, anche stavolta, è politico. L’Ue, che ha voluto far mostra di tenere il punto, non può semplicemente ritirarsi. C’è bisogno di costruire una narrazione. Il riarmo, per esempio, rappresenta (anche) una risposta alle domande, o meglio alle richieste, di Trump (ricordate, quando in tempi non sospetti Lagarde disse che l’Ue avrebbe dovuto acquistare più armi e gas dagli Usa?) ma viene “venduta” all’opinione pubblica come una prova di forza e la volontà di fare più Unione. A differenza della Cina, inoltre, l’Ue ha ben poche armi, e per di più spuntate, da utilizzare se (davvero) volesse far la guerra all’America. “Siamo stati molto chiari fin dall’inizio: non crediamo che i dazi siano di alcun beneficio, né per noi, né per gli Stati Uniti, né per l’economia globale”, ha tuonato Gill. Che però adesso, come tutta Bruxelles, sembra aver dimenticato la vicenda della carbon tax ossia dei “dazi climatici” che l’Ue avrebbe voluto imporre a Cina, India (e in cui sarebbe incappata anche l’America). Il problema, adesso, è politico. Quello economico sarebbe gigantesco, per tutti. S&P ha ribadito le sue previsioni critiche in caso di applicazione dei dazi e ha tagliato le stime di crescita del Pil globale: +2,7%, tre decimi in meno. Per gli analisti «l’aumento delle tariffe all’importazione da parte degli Stati Uniti, le ritorsioni da parte dei partner commerciali, le concessioni in corso e la conseguente turbolenza dei mercati rappresentano uno shock al sistema, con impatti concentrati sulla fiducia e sulla formazione dei prezzi. L’economia reale ne sarà sicuramente influenzata, ma resta da capire in quale misura”. Ma non c’è da disperare. Almeno non ancora. Trump, a differenza dei suoi competitor, non ha niente da perdere. Ha investito la “luna di miele” elettorale impelagandosi nel braccio di ferro dei dazi: dei sondaggi, adesso, non sa che farsene e, anzi, li utilizza a suo vantaggio bollandoli come falsi. Rischiano grosso anche gli Stati Uniti. Per carità. Ma Trump ha scommesso e andrà fino in fondo. Anche perché, lui, on può (almeno fino a prova o sentenza contraria) ricandidarsi. Non ha niente da perdere. Gli altri, invece, sì.


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