Editoriale

Vannacci nostri

di Tommaso Cerno -


Vannacci nostri. Diciamo che, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi, dopo il Mondo al contrario e il Mondo invece dritto, quello per cui le promozioni nella pubblica amministrazione avvengono al di là di ciò che si fa e al di qua di ogni logica privata che valga per la gente comune, era difficile mettere d’accordo i tre fronti in campo: la destra filo-Vannacci che lo vuole eroe e candidato alle Europee (Salvini in primis); il premier Meloni che lo vuole in divisa al suo posto, depotenziato come destabilizzatore del già precario ordinamento della destra di governo, la sinistra che lo vuole a parole fuori gioco, nei fatti in campo, secondo il principio rimasto in vigore silenziosamente per tutta l’era di Silvio Berlusconi che è meglio un conflitto non risolto su cui creare l’attacco al potere che un conflitto risolto che prima o poi lascia spazio alla norma.

Qualcosa insomma doveva pure succedere a questo signore, lucido e composto nei modi, estremo e piuttosto scaltro nei contenuti. Forse la soluzione sarebbe stata nominarlo Capo di Stato maggiore della difesa extraterrestre, invece che terrestre, per mettere d’accordo tutti, spedirlo su Marte. Ma si sa che le maglie del diritto pubblico non sono dotate di razzi interstellari né di soluzioni funamboliche, ma si appoggiano salde dal 1900 sulle carriere lineari, dove conta più una carta bollata che mille polemiche in televisione.

E così ci siamo impallati di nuovo. Il ministro Guido Crosetto aveva parlato di “farneticazioni” all’indomani dell’uscita del libro, ma il governo ha deciso di non fare distinzioni fra Vannacci generale e Vannacci scrittore. E di portare a zero il vulnus giuridico con la pubblica amministrazione, convinto che così facendo il generale sarà disarmato dall’arma più pericolosa, la politica, l’idea cioè di entrare nella battaglia pubblica forte di un’ipotetica discriminazione, lui che di quella parola ha fatto un libro che sta riempendo il suo conto corrente di euro fumanti. Discriminato non dalla società italiana, che nelle vicende delle carriere del pubblico impiego vale zero, bensì dal sistema militare, quello per cui un generale fa carriera al di là di ciò che dice o che scrive. Come avviene per i magistrati, per i dirigenti dei ministeri, per gli alti funzionari della pubblica amministrazione.

La morale in punta di diritto è banale: il generale Vannacci, a questo punto del suo iter militare, in assenza di elementi giuridici che pesino come criterio di scelta, ha diritto a un posto di quel rango, Capo di Stato maggiore. E, lascia intendere la Difesa, in quel mondo l’incarico che ha ottenuto è il cosiddetto minimo sindacale. Proprio perché non sarebbe la politica a decidere, né quella che Vannacci ha animato con le sue affermazioni, né quella che lo ha criticato. Una sorta di terzietà di Stato che tuttavia sbatte con un dato di fatto: il Paese parla di lui da mesi, si spacca e si divide sulle sue parole, per cui tutto può succedere tranne che passi l’idea di un “aiutino” al Vannacci medesimo. Ed ecco che in concomitanza con una nomina che può essere definita “naturale” arriva l’inchiesta che lo spinge al congedo, perché Vannacci deve decidere come comportarsi. Deve passà la nuttata.

E poi finalmente dirci se saranno Vannacci suoi, cioè si prenderà il suo incarico e tornerà a fare il militare silenzioso oppure, come pare, no, non farà nulla del genere. Ma finirà per usare anche la presunta promozione come una discriminazione e scegliere davvero quella politica che lui ha sfiorato, annusato, con il suo libro. E che oggi di fronte al posto nello Stato Maggiore non ha più spazio di espansione. Almeno non pubblico. Almeno non subito. Insomma, mettetela come volete, saranno come sempre Vannacci nostri.


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