La caccia di quattro fratelli
Ci si può liberare da un terribile trauma infantile e liberarsi da una visione distorta della realtà e dei rapporti (di forza) tra persone di un padre spietato che ha inculcato le regole della caccia come regole di vita ai suoi quattro figli? E’ questo il senso, la cifra de La caccia di Marco Bocci, alla sua seconda regia dopo A Tor Bella Monaca non piove mai: dramma dalle tinte foscamente noir scandito dalla voce fuori campo della narratrice che legge la favola dei fratelli Grimm I quattro fratelli ingegnosi. Nella pellicola l’atmosfera mortifera e la condanna del fato che si abbatte sui protagonisti è ben più accentuata rispetto alla favola originale. Il film è un viaggio negli abissi della cattiveria, dell’avidità, della mostruosità dell’essere umano. Qui cacciatore e/o preda, vittima di una vita vista come una battuta di caccia, fino alla prova finale, dove affrontare i più feroci degli animali. Tutto è simbolo nel film, carico di una forza allegorica proprio nell’impianto narrativo parallelo alla fiaba recitata dalla narratrice. Il bosco con i suoi pericoli e la caccia sono appunto la vita e le armi che si hanno a disposizione per affrontarla. Chi non sa sparare può mettere le trappole. Chi non conosce la via del ritorno non merita di vivere nella casa di famiglia. I durissimi insegnamenti paterni tirano su quattro fratelli accomunati dalla cattiveria di fondo, dal cinismo e dall’arrivismo, dallo sfruttamento dell’altro per soddisfare i propri desideri. Solo il più forte, perché più spietato, sopravvive. Siamo all’homo homini lupus in versione fratelli-coltelli.
Questa la trama. Quattro fratelli (tre maschi e una femmina), che non si incontravano da molti anni, si ritrovano in seguito alla morte del padre. La villa in cui sono stati bambini è l’unica eredità che gli resta. Così come un terribile trauma mai superato, che i quattro bambini hanno subito in quella villa. Dividere in quattro parti il ricavato dalla vendita non basterebbe a nessuno di loro per risolvere i problemi finanziari. Finché uno di loro non fa una proposta: una battuta di caccia. Chi prenderà la preda più grossa vincerà l’intero ricavato della vendita della villa.
Luca (Filippo Nigro), Silvia (Laura Chiatti), Mattia (Pietro Sermonti) e Giorgio (un bravissimo Paolo Pierobon) sono fratelli molto diversi: Luca vende auto di lusso e ha in testa di espandersi, ma si affida a un delinquente; Mattia è un pittore che perde misteriosamente un importante committente; Giorgio è un grigio contabile in un’azienda di mobile succube della sua famiglia: mantiene i vizi della moglie e ha promesso alla figlia di iscriverla nell’università più esclusiva d’Italia; Silvia è la più fragile e dopo un periodo di tossicodipendenza vuole diventare madre ma senza dover portare lei avanti la gravidanza. Le loro vite sono traumatizzate e traumatiche. Mattia si rivela perfido e crudele contro la sua fidanzata, un’aspirante cantante. Luca è senza scrupoli. Silvia si rivela un’aguzzina. Giorgio (purtroppo) è il più simile al padre.
Il dramma familiare rispecchia la società contemporanea, dove prevale la legge del più forte, l’egoismo, l’individualismo. La pellicola offre spunti di riflessione su quanto incida nella vita da adulti l’educazione ricevuta. Su quanto tale humus familiare incida sul legame tra fratelli e su come tale vincolo possa sopravvivere alla lontananza e all’allontanamento. A scelte di vita inconciliabili tra loro. La violenza diventa l’unica chiave di volta di ogni dubbio, speranza, incubo. Il dolore è inevitabile ma sopportabile, se ne vale la pena.
A livello tecnico il film si poggia su una fotografia grigia, lugubre, con molte penombre. E anche su una colonna sonora originale molto suggestiva. Oltre che sulla scelta – di certo non originalissima ma funzionale – di brani in contrasto con le immagini mostrate. La trama è solida sebbene super collaudata, visto l’archetipo della famiglia di serpi in seno. Le sequenze più fastidiose per quanto sono realistiche sono quelle a casa di Giorgio, vittima sia della moglie che della figlia, assetate di vacuo ed effimero successo, perché semplicemente votate al far crepare di invidia le proprie amiche. Un elemento comune ai quattro protagonisti è che la casa è una trappola, un luogo di infelicità. Gli sviluppi narrativi sono tutti abbastanza prevedibili. Ma la prova attoriale è buona e rende credibile la storia raccontata. Così come dà corpo con efficacia alla psicologia dei personaggi. Una favola noir senza nessuno che visse felice e contento. Che inizia male e finisce peggio.
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