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Attualità

La prigione dell’abbandono. I suicidi in carcere

di Priscilla Rucco -


Il carcere italiano non è solo sovraffollato: è totalmente lontano dal significato di umanità. Le celle sono piccole, condivise da più persone, con un tempo minimo all’aria aperta e un accesso ridotto alle attività. Secondo “Antigone”, nel 2024 la capienza regolamentare delle carceri italiane è di circa 51 mila posti, ma i detenuti sono oltre 61 mila. Una compressione che uccide e nemmeno troppo lentamente. I numeri dei suicidi sono in costante crescita, ma restano un dramma comunque inascoltato: 74 morti in meno di un anno, un dato mai così alto. In media, quasi uno ogni settimana. Eppure questi dati non fanno notizia, ma riempiono la cronaca. Le carceri non sono solo luoghi di detenzione, ma anche specchi che riflettono il nostro grado di in-civiltà. E se dentro le celle si muore così tanto, vuol dire che qualcosa nel sistema deve cambiare e anche rapidamente.

Chi sono le persone che si suicidano in carcere?

Non esiste un profilo unico. Uomini e donne, giovani e adulti, italiani e stranieri: chiunque può soccombere alla disperazione. Le donne sono una minoranza (circa il 4-5% della popolazione detenuta), ma non per questo meno esposte. Le cinque donne suicidate nel 2023 raccontano un dolore spesso doppio: la colpa e l’abbandono come madri. Molti suicidi avvengono nei primi giorni di detenzione, quando il trauma dell’arresto incontra l’assenza di supporto psicologico adeguato e la vergogna. Il carcere non è preparato ad accogliere la fragilità: eppure le richieste di aiuto ci sono, solo che spesso restano inascoltate dietro le sbarre.

Quali sono le cause di questa escalation?

La verità è che il sistema penitenziario italiano non regge più e da molto tempo ormai. Lo denunciamo spesso a L’identità. Esiste solo uno psicologo ogni cento detenuti in molte strutture; l’ascolto è delegato a volontari, cappellani o agli educatori già sovraccarichi. La riforma penitenziaria promessa da anni si blocca tra mancanza di fondi e scarsa volontà politica. A questo si aggiungono celle sovraffollate, isolamento, mancanza di attività, conflittualità costante, e un generale senso di abbandono. Nei primi mesi del 2024 la media è tragica: quasi un suicidio ogni quattro giorni. E quando il sistema non offre alternative, il vuoto psicologico diventa letale.

Cosa si può fare per prevenire i suicidi?

Serve una strategia strutturale, non interventi emergenziali. Rafforzare i servizi psicologici e psichiatrici, ridurre il sovraffollamento tramite misure alternative alla detenzione, garantire attività formative e lavorative. E soprattutto: ascoltare. Ogni detenuto dovrebbe essere valutato e seguito fin dai primi giorni, quando il rischio è più alto. La prevenzione non è solo clinica, è umana: significa ricostruire legami, creare spazi di dialogo, formare il personale, e non lasciare nessuno solo nel momento più vulnerabile della sua vita. Oggi il dramma dei suicidi in carcere resta quasi invisibile: non fa rumore, non porta consenso e non genera un confronto o un dibattito. Eppure un carcere dove si muore così tanto riguarda tutti, perché racconta il livello reale di civiltà del Paese. Informare, raccontare, dare voce alle storie e ai numeri è il primo passo per costringere la politica ad agire. 


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