Atreju, Giggino e l’incoerenza premiata
Atreju non è più una semplice festa di partito. È un rito politico nazionale, un palcoscenico che misura i rapporti di forza del presente e stabilisce chi è dentro e chi resta fuori dal dibattito pubblico. Chi partecipa parla a un Paese intero, perché Atreju oggi certifica il riconoscimento mediatico e simbolico. Per questo ogni presenza pesa, ogni invito segna, ogni assenza parla. Ma in Italia il qualunquismo resta un viatico per la carriera. Luigi Di Maio, detto Giggino, abolizionista della povertà per slogan, interprete a termine dell’antisistema e dell’uno vale uno, è stato invitato ad Atreju come fosse uno statista della Repubblica. Non per affinità qualunquista. Fratelli d’Italia governa, e governa davvero. Giggino è lì per una ragione pedagogica, rappresenta il qualunquismo grillino approdato al trasformismo di successo. Il suo valore non è una competenza né una visione, ma la sopravvivenza adattiva, urlava contro i poteri forti per poi stabilirsi nei poteri fortissimi. Atreju non ha invitato chi ha abolito la povertà, perché non solo è rimasta ma è peggiorata, bensì chi ha fatto dell’incoerenza una carriera. L’uomo della “scatoletta di tonno” è diventato arredo istituzionale, non per maturazione ma per convenienza, è il simbolo di un sistema che non si riforma, si attraversa. La forza simbolica dell’evento sta qui, Atreju non ospita Di Maio per discutere il passato, ma per certificare il presente. La sua presenza sancisce lo sdoganamento di un qualunquismo che si è fatto metodo, tecnica di sopravvivenza, trasformismo accettato. Non una nota marginale, ma una stonatura evidente, ciò che viene premiato non è il percorso, ma la capacità di cambiare pelle senza rendere conto delle promesse mancate. La responsabilità originaria è di Grillo, che ha trasformato la politica in spettacolo permanente, elevando l’incompetenza a virtù e la semplificazione a purezza. Giggino non è un’eccezione, ma il prodotto più riuscito di quella pedagogia rovesciata. Non è una questione di schieramenti, ma di qualità della rappresentanza e del suo esercizio. Già prima dell’ondata populista, esponenti del centrosinistra popolare e riformista avevano denunciato il rischio di ridurre la politica a mera occupazione del potere, svuotandone la funzione pubblica. Tanto è il progressivo logoramento di un quadro politico trasversalmente consumato e ingiallito che persino voci estranee alla militanza partitica, come quelle dei Berlusconi, hanno indicato ciò che molti preferiscono eludere. Il problema non è l’alternanza, ma la qualità della rappresentanza e la funzione che essa ha smarrito. Così Atreju, grande agorà nazionale, archivia la stagione delle illusioni scadute e legittima una nuova normalità, in cui la coerenza non è più una virtù, ma un optional. Giggino ne diventa la metafora più compiuta. Non più “uno vale uno”, ma vale finché serve. E se sa adattarsi, serve.
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