Editoriale

Calimero all’italiana

di Tommaso Cerno -


di TOMMASO CERNO

Certo che se c’è uno che la sindrome di Calimero ce l’ha questo è Piero Fassino. Ha mostrato in Ala l’indennità da pulcino nero, dimenticandosi quella da cigno, che arriva a fine mese, e circa il doppio e non finisce nella dichiarazione dei redditi. Questo per dire che in fondo c’è anche una classe politica che crede davvero a quello che dice, e poi però la realtà è differente. E’ questa, cara Giorgia Meloni, la sindrome più italiana di tutte.

Il Calimero a rovescio. Uno che sa bene di essere un cigno ma fa finta di essere brutto e nero. Sperando che gli altri si convincano che è vero, non stiano tanto a guardare i dettagli, in modo che quando Ciro potrà dire di essere e con il petto alzato e il becco in su solcare le acque verso il suo destino nessuno starà lì a seguirlo. Perché tutte le favole hanno un antidoto, raccontano certo un aspetto di noi, di quegli italiani che certamente si sentono meno di quello che sono, ma c’è tutta un’Italia che il senso della verità oggettiva l’ha perso da tempo. Ed ecco perché il gesto di Fassino è inquietante quanto fuori luogo. Perché se è vero, e io lo penso, che i parlamentari prendano anche troppo poco per quello che sarebbero chiamati a fare per il Paese, poi possiamo discutere se sono in grado di farlo o meno, una volta che decidi di dire quanto prendi non puoi farlo a metà e giocare sulle parole, perché la tua indennità, quella che arriva per prima, è più bassa del tuo stipendio reale che comprende altre voci che tu conosci molto bene e che sono la realtà.

Ecco che Calimero da cigno si traveste da pulcino nero per sembrare quello che non è e per farsi quasi un po’ compatire dai pulcini gialli che cigni non saranno mai perché si sono affidati a te non perché tu percepisca 4000 o 5000 euro ma perché tu dica loro come stanno le cose davvero. E siamo molto lontani. Ecco perché quel monito di Giorgia Meloni agli imprenditori non va ascoltato solo nel suo significato semantico, come sprone cioè a respirare profondamente e sentirci italiani, padroni della nostra storia e del nostro futuro, capaci di grandi imprese e grandi cose, ma anche come monito perché questo Paese smetta di raccontarci mezze verità, per poi finire schiacciato quando i fatti parlano con una voce così alta da non poter più essere sovrastati da bugie.

Questo vale per i conti pubblici e per le sfide che ci attendono, per le quali non bastano certo le parole e il buonumore, ma devono valere anche per la guerra, devono valere per l’Europa, per ciò che fa di giusto e per ciò che fa di sbagliato, devono valere per la crisi e per l’inflazione, per il reddito di cittadinanza e per i condoni. E invece quello che si vede è sempre più una politica divisa per bande, dove tutto è bianco o nero, cigno o pulcino diverso e brutto, dove la verità come nelle sette di magia sta tutta nelle formule di un capo, mentre dall’altra parte un’altra magia e un’altra formula distruggono l’incantesimo degli avversari per affermare la propria visione del mondo.

Un mondo dove tutti si credono cigni e vedono gli altri neri. Una strada che finirà per lasciare le decisioni che contano alla storia passata, una strada che ci porterà ad essere orgogliosi di ciò che eravamo ma immersi nella palude di un quotidiano dove ci schizziamo il fango senza saperne più uscire.


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